Invertire i ruoli per combattere la disparità di genere
29 ottobre 2014
L’Italia scivola sempre più in basso nella classifica mondiale della parità di genere, diminuisce ancora la partecipazione delle donne al settore economico
L’Italia è al 69° posto su 142 Paesi (ha guadagnato due posizioni rispetto al 2013) nella classifica mondiale sulla parità di genere, ma scende al 114° posto (dal 97° dello scorso anno) per quanto riguarda la partecipazione delle donne al settore economico e al 129° per la parità degli stipendi. Sono i dati appena pubblicati dal World economic forum (Wef) e non c'è certo rallegrarsi per quei due scalini rimontati dall'anno scorso, né tantomeno per l'ipotetico traguardo dell'effettiva parità, individuato nel 2095. 81 anni: anche a volerci credere, sono troppi, una beffa. Quindi, se tutto va bene (si fa per dire), della disuguaglianza soffriranno ancora le nostre figlie e le nostre nipoti. L'Italia perde tutte le scommesse sulle pari opportunità e scivola ancora più in basso nella lista dei Paesi insensibili alle discriminazioni di genere. Se guardiamo il mondo del lavoro, il tasso di impiego maschile fotografato dall'Istat nel luglio scorso è del 64,8% contro il 46,3% di quello femminile; al sud, poi, la disoccupazione supera il 50% fra le giovani e una donna su cinque resta a casa dopo un anno e mezzo dalla nascita del primo figlio. Incredibile? Non tanto: i servizi scarseggiano, gli asili chiudono, e chi si deve occupare di bambini e anziani? Se poi si aggiunge la crisi economica, è evidente che le prime a farne le spese sono le donne, anche se sono considerate una “risorsa e un valore aggiunto” per l'economia del Paese. Se in una coppia uno dei due – in mancanza di alternative o di sostegno familiare – deve lasciare il lavoro per badare ai figli, inutile chiedersi chi rinuncerà allo stipendio; anche perché, di nuovo, quasi sempre chi guadagna di più è l'uomo. Dunque è un circolo vizioso in cui le donne sono sempre più intrappolate. E questo, nonostante altri dati confermino – e lo sappiamo bene – che sono proprio le ragazze a ottenere i risultati migliori a scuola e all'università. Riassunto: sono più brave ma trovano meno lavoro dei loro colleghi maschi, sono pagate meno e rischiano di essere licenziate appena diventano madri.
Eppure la disuguaglianza non è una condanna “naturale”, ma una condizione sociale cui si può – si deve – fare fronte: certamente chiedendo a Governo e istituzioni di mettere in agenda come prioritari e accessibili i servizi alla famiglia ma anche liberando i generi dai ruoli a cui vengono inchiodati sin dalla più tenera età e contribuendo a smontare quel sottile ma persistente condizionamento culturale che vorrebbe le bambine più docili, più remissive, più passive, dunque destinate, di fatto, a una vita casalinga e di “supporto” all'uomo, oggi come ieri. Non è un'esagerazione: dalle analisi sui libri di testo della scuola primaria si è scoperto che le professioni ritenute adatte per i maschi sono 80 e quelle per le femmine soltanto 15 (indovinate quali? Mamma, maestra, ballerina, estetista...). Riconoscere e smontare i modelli culturali sessisti che limitano le scelte delle bambine non è facile: per questo l'educazione di genere, che in Italia incontra tante resistenze e che viene fatta solo in modo troppo sporadico e grazie all'intervento di alcune associazioni laiche, è fondamentale. L'otto per mille della Chiesa valdese, per esempio, ha finanziato la scorsa primavera “Gli adulti imparano, gli adulti insegnano la relazione fra uomini e donne”, un corso per genitori e insegnanti proposto dall'associazione ZeroViolenzaDonne, cinque incontri in quattro istituti comprensivi di altrettante periferie romane, proprio per contribuire a riconoscere e a combattere gli stereotipi nella scuola. Per cambiare i numeri del Wef non bisogna aspettare che riparta la crescita economica, bisogna innanzitutto modificare la prospettiva. Il mondo non è necessariamente rosa o azzurro e invertire i ruoli può essere rivoluzionario.