I recenti fatti di violenza inaudita che la cronaca ci propone rischiano da un lato di farci assuefare a queste efferatezze, dall’altra di farci apparire come nuovi comportamenti e situazioni che accadono periodicamente. Anche nella cronaca recente ci sono parecchi episodi analoghi a quello accaduto in provincia di Ferrara. Gli studi a tale riguardo ci dicono che i comportamenti delittuosi degli adolescenti sono realizzati per tre quarti con la partecipazione di altri compagni (come nel caso in questione) e ciò conferisce alla maggioranza di queste manifestazioni un carattere socializzato e che la loro frequenza, natura e gravità variano in funzione del contesto culturale, sociale e urbano e delle situazioni concrete di vita dei giovani; questo ci esorta a tenere conto anche dell’origine socioculturale di questi comportamenti. Le condotte dal carattere antisociale più accentuato, di natura ripetitiva, aggressiva e violenta sono messe in atto da una parte di adolescenti che, talora ma non necessariamente, provengono da ambienti degradati, mentre invece una parte di comportamenti delittuosi è di natura più spiccatamente psicopatologica. Le caratteristiche personali, biologiche, mentali, psichiche si innestano su dei fattori di vulnerabilità socioculturale e su esperienze familiari conflittuali.
Ciò che ci dovrebbe maggiormente interessare è il ripercorrere a ritroso la storia di vita di questi adolescenti, riavvolgendola come una bobina: è ciò che gli psichiatri cercano di fare per provare a comprendere dove sono i nodi che hanno impedito uno sviluppo equilibrato della personalità. In questo percorso di accompagnamento spesso si incontrano storie di bambini e adolescenti che non sono sempre stati vittime di abusi o maltrattamenti evidenti, ma che sono stati «amati male». Non hanno raggiunto una propria autonomia psichica a causa dell’incapacità di rendersi autonomi dalle figure genitoriali. Non hanno maturato la capacità di distinguere tra il reale e il simbolico, processo che tutti dobbiamo vivere attraverso un progressivo «taglio del cordone ombelicale», per cui vogliono eliminare fisicamente i genitori dai quali non sono riusciti ad affrancarsi. Sovente, un’alta conflittualità nelle relazioni con le figure genitoriali è segno di una profonda dipendenza. La vita può apparire così una prigione claustrofobica da cui è possibile evadere soltanto facendo fuori i presunti carcerieri. È lì che s’insinua il «demone» che può trasformare un ragazzo in un parricida o matricida.
Non si tratta di «mostri», come i giornali e anche la nostre coscienze vorrebbero farci credere, ma di persone raccontate dai vicini come normali, anche gentili ed educate, che agiscono in modo lucido, predeterminato, con efficacia e pianificazione.
Che cosa si può fare? Anzitutto, ai fini preventivi, è molto importante intervenire precocemente. Occorre, quindi, investire tempo ed energie in questo campo diffondendo una cultura dell’attenzione costante e non episodica all’età evolutiva più che attardarsi in ricostruzioni postume che sembrano riflettere un interesse da talk-show.
In secondo luogo, dobbiamo insieme cercare di recuperare l’esercizio del pensiero, principale antidoto nei confronti di un’alienazione che conduce alla morte. I germi di una cultura mortifera, che si respirano nella famiglia e nella società, vogliono farci credere che studiare non serve, ma anzi che chi perde tempo con lo studio non troverà sbocchi lavorativi. Non si tratta di rincorrere necessariamente i titoli di studio, ma di ritrovare la capacità di cogliere la complessità della vita e di distinguerne i diversi livelli. La Bibbia, in questo senso, è un ottimo libro di testo per riconoscere il carattere a tratti drammatico e faticoso dell’esistenza. In questa nostra società così povera culturalmente, quasi l’80% della popolazione è segnata dall’«analfabetismo funzionale», che rende incapaci di ricostruire ciò che si è appena ascoltato, o letto, e dove la complessità della realtà sfugge completamente. Un italiano su cinque, in un anno di 365 giorni, non apre neppure un giornale o un libro, non va una sola volta a teatro o al cinema, vive esclusivamente di ciò che la peggiore «televisione dell’emozione» gli somministra.
All’interno delle nostre chiese, sebbene esse non siano immuni da questa malattia che vede il mondo in maniera monodimensionale, rimangono degli spazi che consentono e promuovono il confronto, l’approfondimento, la riflessione, fra persone diverse e con un testo biblico che costringe sempre a pensare. È anche così che si possono formare delle personalità autonome, libere, consapevoli.