La morte di Sandrine Bakayoko, la ragazza ivoriana di 25 anni deceduta il 2 gennaio al centro di accoglienza per i migranti di Cona, in provincia di Venezia, ha riacceso il dibattito sulle strutture destinate ai migranti irregolari, unendosi al tema delle espulsioni, rilanciato dal governo sull’onda emotiva dell’uccisione di Anis Amri, il presunto attentatore di Berlino, che era transitato dall’Italia nel 2011 senza che il suo rimpatrio, previsto dalla legge, venisse attuato.
All’inizio di quest’anno il capo della polizia, Franco Gabrielli, ha annunciato in una circolare lo sviluppo di piani straordinari di controllo del territorio nei confronti dei migranti irregolari. Secondo il ministro dell’Interno, Marco Minniti, si sta ragionando su «una strategia più ampia», che prevede tra le altre cose l’apertura di un Cie, un centro di identificazione ed espulsione, in ogni regione italiana, e il raddoppio del numero di espulsioni nel corso del 2017.
Secondo l’avvocato Guido Savio, dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), «Sicuramente aumenteranno i rastrellamenti e le identificazioni di migranti irregolari, ma la capacità espulsiva è quella che è, quindi non si andrà oltre un po’ di messinscena». In una fase in cui le politiche europee sono sempre più orientate verso il rimpatrio delle persone che non riescono a ottenere una forma di protezione in Europa, l’impressione è che la prima presa di posizione del nuovo governo in materia di immigrazione rilanci un approccio che a fasi alterne il nostro Paese ha adottato sin dalla fine degli anni Novanta, senza mai arrivare al nucleo della questione migratoria.
Quanti sono attualmente i Cie aperti e operativi?
«Rispetto agli inizi sono sempre di meno: oggi sono quattro, cioè Torino, Roma, Bari e Caltanissetta, mentre quello di Trapani è stato convertito in hotspot a fine 2015. Quel che colpisce è che in tutto il centro-nord Italia, fino a Roma, sia aperto soltanto quello di Torino, che attualmente ha una capienza di 90 posti, anche se è in atto una ristrutturazione e un ampliamento».
Qual è lo stato di salute di questa istituzione?
«Potremmo definirlo comatoso. I Cie rappresentano una forma di detenzione a tutti gli effetti, e questo l’ha chiarito la corte costituzionale sin dal 2001, ma visto che prevedono la restrizione delle libertà personali senza che si sia commesso nessun reato, nei fatti sono delle aree di “parcheggio” per poter organizzare l’espulsione, ovvero il rientro in patria delle persone che debbono essere allontanate.
Siccome oggi i Cie sono pochi, e siccome i tempi di permanenza oggi sono ridotti al massimo a 90 giorni, sono riempiti con persone ex detenute, persone che vengono scarcerate e che dopo aver trascorso magari due anni in carcere, nel quale non sono stati identificati, anche se questo prevederebbe la legge, si ritrovano a passare ancora 30 o 40 giorni in un Cie per poter essere identificate».
Ma il problema centrale del sistema è la qualità o l’efficacia?
«Entrambi. Il sistema dei Cie è comatoso non solo perché le condizioni di vita al loro interno sono scadenti, ma anche perché non c’è un giudice che controlla cosa avviene nel Cie, non c’è un giudice del trattenimento, a differenza del carcere, dove almeno c’è un giudice di sorveglianza. Soprattutto, però, è indubbio che l’esperienza dei Cie abbia dimostrato che queste strutture sono estremamente costose e soprattutto che non funzionano, perché la loro “resa” è inferiore al 50%. Le statistiche nel corso degli ultimi anni hanno dimostrato che meno della metà delle persone trattenute nei Cie vengono effettivamente espulse, il che significa che, siccome i costi sono estremamente elevati, il rapporto costi-benefici è fallimentare. È questa la ragione per cui i Cie si sono andati diradando da soli. Alcuni sono stati convertiti in Centri di accoglienza per richiedenti asilo, altri invece sono stati chiusi perché le condizioni di vita erano indecenti. Ora, riprendere sull’onda emotiva dell’allarme terroristico questo vecchio strumento, che ha già dimostrato di non funzionare, di non essere utile allo scopo, mi pare una mossa propagandistica del tutto inutile».
Quindi secondo lei non c’è stata una riflessione sul senso dei Cie?
«Esatto. L’idea sembra proprio essere quella di riaprire questi centri senza mettere in discussione il modello su cui si fondano. Sembra, stando alle parole del ministro Minniti, che si vogliano fare dei Cie più piccoli, al massimo di 100 posti, uno in ogni regione. Non dimentichiamo, tra l’altro, che queste strutture vanno costruite, e non è qualcosa che si fa dall’oggi al domani. Inoltre, mi sembra sia evidente la forte ostilità degli enti locali, che spesso e volentieri non vogliono assolutamente sul proprio territorio questo tipo di centri».
Riaprire i Cie e aumentare le espulsioni: la linea italiana ora è quella di rinunciare a ripensare a una nuova politica migratoria comune?
«Di fatto sì. Si dice di aumentare le espulsioni e di fare rastrellamenti a tappeto. Saranno pure belle parole, per chi apprezza l’approccio securitario, ma bisogna poi vedere se concretamente si riusciranno a eseguire le espulsioni.
Siamo in una situazione che vede una forte, massiccia volontà di migranti di entrare nella “fortezza Europa” per tutta una serie di ragioni che conosciamo. L’Italia, come tutta la “fortezza Europa”, si vuole sempre più chiudere a riccio non rendendosi conto che in realtà siamo un colabrodo. È chiaro che l’immigrazione non si può fermare con i muri, perché da una parte o dall’altra le persone entrano, mettendo a repentaglio la propria vita e finanziando le strutture criminali che organizzano questi viaggi».
E quindi cosa bisognerebbe fare?
«Prendere coscienza di questi limiti, innanzitutto, e poi riaprire delle fonti legali di ingresso, delle forme di ingresso legale, cosa che invece non esiste. Da quanto tempo, da quanti anni non c’è un decreto flussi degno di questo nome? Da quanto tempo si dice che si vorrebbero prevedere delle forme di regolarizzazione in itinere? In particolare questo approccio sarebbe opportuno: una persona che in Italia ha un lavoro, sia pure ovviamente irregolare, che non ha commesso reati e che risponde ad alcuni indici di oggettiva integrazione, potrebbe essere tranquillamente regolarizzata. Pensare di mandare via tutti non è nemmeno immaginabile, mentre avrebbe senso mantenere in piedi il sistema espulsivo limitandolo a quelle persone, che sono sicuramente una minoranza, che non sono soltanto in una posizione di irregolarità amministrativa ma che sono effettivamente pericolose per la nostra società. Mi sembra che invece la scelta rimanga quella miope di continuare a invocare espulsioni su espulsioni, quando ormai sono quindici anni che si porta avanti questa politica che di fatto non funziona».
Non ci sono alternative alle espulsioni forzate?
«Certo, anche se in realtà non sembrano essere prese in considerazione. La strada che sembra essere intrapresa dal governo è invece quella di facilitare le espulsioni stipulando accordi di riammissione. Significa che noi ci mettiamo d’accordo con i Paesi di maggior flusso migratorio e in qualche modo facciamo sì che queste persone si riprendano i loro cittadini, che noi non vogliamo più e che riteniamo non abbiano il diritto di restare qui. Il problema è che questi accordi sono sostanzialmente stipulati sotto banco, senza alcun livello di trasparenza. Pensiamo all’accordo che è stato stipulato dal capo della polizia italiana con l’omologo del Sudan nell’agosto del 2016. Ebbene, lì si prevede che la polizia italiana possa portare a Khartoum delle persone se sembrano essere sudanesi. Questo significa che se io sembro un sudanese, allora posso essere portato a Khartoum sulla base di un’identificazione sommaria. Se poi nel frattempo si scopre che vengo dal Burkina Faso o dalla Nigeria, che cosa ne sarà di me? Quali garanzie avrò a Khartoum, nel democratico Sudan? È questo il problema: gli accordi sotto banco possono nascondere delle intese malevole, non è detto che portino ad alcun risultato, e non essendo accordi politici di carattere internazionale non sono ratificati dal Parlamento, per cui vengono adottati al di fuori della potestà normativa delle nostre istituzioni di controllo».