Nei giorni immediatamente successivi all’attentato di Berlino dello scorso 19 dicembre, nel quale sono state uccise 12 persone, si è parlato molto del fatto che la possibile radicalizzazione di Anis Amri, il presunto responsabile del gesto, sia avvenuta durante la sua detenzione in un carcere italiano. Amri, infatti, era arrivato in Italia nel 2011, durante il periodo delle cosiddette “primavere arabe”, ed era stato arrestato e condannato a quattro anni di carcere per avere causato alcuni danni e un incendio nel centro di accoglienza di Belpasso, vicino a Catania.
Nei suoi confronti le autorità italiane avevano anche spiccato un provvedimento di espulsione, che però non venne mai attuato, come spesso succede nel nostro Paese. Secondo alcune testimonianze, infatti, era stata l’esperienza in carcere ad avvicinare Amri alla religione, e le stesse autorità penitenziarie di Palermo avevano segnalato «atteggiamenti sospetti tendenti alla radicalizzazione».
Subito dopo l’uccisione di Anis Amri, avvenuta nella notte tra il 22 e il 23 dicembre a Sesto San Giovanni, vicino a Milano, è invece emersa un’altra narrazione, quella sull’eccellenza del sistema di prevenzione antiterrorismo italiano, in grado di evitare lo sviluppo di una rete di relazioni tra jihadisti nel nostro territorio. È difficile pensare che queste due dimensioni possano convivere, eppure che il carcere sia un sistema slegato dalle logiche e dalle dinamiche del “fuori” non dovrebbe stupire più di tanto. Con Alessio Scandurra, responsabile dell’osservatorio Antigone sulle condizioni di detenzione, si riparte proprio dal concetto di “radicalizzazione in carcere”.
Per chi monitora le condizioni delle carceri italiane questo fenomeno è una novità?
«Diciamo che per noi che ci occupiamo di carcere è una parola nuova. L’idea è quella di una persona detenuta, verosimilmente musulmana ma non necessariamente, entra in contatto con persone o gruppi che predicano un islam radicale e aderisce a un’interpretazione radicale che predica la guerra santa.
È una parola nuova, d’accorso, però la storia italiana ci racconta fenomeni diversi nei termini ma non così differenti nella sostanza: pensiamo al proselitismo del terrorismo politico degli anni Ottanta nelle carceri italiane, un fenomeno molto forte e molto importante, che ha visto tante persone aderire alla lotta armata durante la detenzione, con detenuti comuni che diventavano detenuti politici. Un altro processo che storicamente ha interessato il nostro Paese è l’adesione alle grandi organizzazioni criminali durante la detenzione dei piccoli criminali, soprattutto nelle grandi carceri del Sud: il piccolo delinquente entra senza essere nessuno, ma in carcere trova il sostegno e la solidarietà economica delle mafie, perché la famiglia magari si trova in difficoltà, e questo fa sì che venga arruolato. Insomma, “radicalizzazione” è una parola nuova, che racconta un fenomeno parzialmente nuovo ma rispetto al quale abbiamo già qualche tipo di esperienza».
Questa tendenza ad affidarsi alle grandi organizzazioni e alle grandi ideologie va cercata nel desiderio di protezione in carcere?
«Non sono sicuro che l’idea di avere maggiore sicurezza rispetto alla strutture spieghi questa dinamica. Dobbiamo andare più in profondità: certo, in carcere ci sono grandi criminali e figure molto pericolose, ma la massa dei detenuti è formata in realtà dagli ultimi degli ultimi, che erano già gli ultimi degli ultimi quand’erano fuori e ancora di più quando sono in carcere. Non c’è quindi solo un bisogno di sicurezza, ma anche di soddisfare bisogni materiali elementari, per esempio trovare qualcuno che presti un po’ di soldi per comprare il detersivo o le sigarette, e non dimentichiamo il bisogno di rivalsa, la necessità di accedere a un’identità più forte per chi sente di non essere nessuno. Credo che questa componente sia davvero molto forte».
Pensando più strettamente al fenomeno della radicalizzazione, la carenza di assistenza spirituale in carcere può essere un rinforzo?
«Sì, perché l’assistenza spirituale dovrebbe essere una delle strade possibili per dare alle persone una prospettiva, una speranza, e nelle carceri italiane è del tutto inadeguata rispetto ai numeri e alla composizione della popolazione detenuta. Sì, c’è il cappellano cattolico più o meno ovunque, ma al di là di questo c’è molto poco, perché ci sono realtà in cui soprattutto i territori sono più avanzati e più attrezzati, quindi qualche rappresentante delle comunità religiose presenti sul territorio riesce a entrare, però non è un servizio strutturato in maniera omogenea, che non è in grado di raggiungere tutte le persone detenute».
In base a questi due aspetti, dove bisognerebbe intervenire in modo prioritario?
«È banale, ma ridurre i numeri della detenzione ridurrebbe innanzitutto la carenza di risorse, che si traduce in inadeguatezza del personale e dei servizi. Su un numero più limitato di persone le stesse risorse permetterebbero di creare meno danni. Inoltre bisognerebbe puntare a ridurre la presenza nelle carceri di quegli “ultimi degli ultimi” che proprio in quanto persone che non vedono una speranza e non vedono una via possono essere attratte da risposte identitarie estreme e radicali come quelle di cui si parla in questi giorni. Un criminale strutturato, con un’identità certamente criminale ma forte, possa più difficilmente decidere di cambiare vita, convertirsi alla guerra santa e lanciare la guerra all’Occidente. Il rischio riguarda in modo più forte le persone particolarmente deboli, che forse in carcere potrebbero direttamente non starci».