Il referendum costituzionale giunto a conclusione con la vittoria del «no» ha visto una campagna caratterizzata da toni troppo elevati, che spesso non affrontavano il merito delle questioni. Due-tre questioni di esse e ci interpellano.
La Costituzione è anche un patto tra contraenti: i sostenitori del «no» hanno detto che la sua parziale ridefinizione doveva coinvolgere tutte le forze politiche, e non solo quelle di una maggioranza, ed è vero, anche se altri tentativi erano falliti ed è stato il Parlamento, a inizio legislatura, a sollecitare il Governo a provvedere. A questo progetto il Governo ha associato dei toni altisonanti, come se dalla riforma proposta dovesse scaturire una nuova èra.
Da parte dei sostenitori del «sì» si è lamentata l’eccessiva (davvero eccessiva) visione apocalittica di «rischio-democrazia» che l’Italia avrebbe subito nel caso di approvazione della riforma. Aggiungerei che affermare di dover «salvare la Costituzione», come un’entità immodificabile da tutelare così come è, significa correre il rischio di fare della Costituzione un’astrazione, di porla fuori dalla storia.
Ora, a quanto detto sopra non sono estranee considerazioni che sentiamo da sempre come «nostre». Il Patto, da quelli stabiliti con Abramo e Mosè all’ultima Cena, è sempre stato centrale nella teologia e nella vita organizzativa dei protestanti. Permea la storia del puritanesimo, è alla base degli Stati moderni; ci verrà ricordato, a inizio anno, nei culti di Rinnovamento del Patto nelle nostre chiese metodiste.
La familiarità con la Bibbia e la fede ci hanno insegnato, anche negli anni di maggior coinvolgimento dei protestanti, a diffidare di ogni proposta politica che si presentasse come l’alba di un nuovo inizio: non confondiamo il Regno di Dio su cui predichiamo con le realizzazioni, limitate (anche le più belle), se sono umane.
Dai profeti e dai libri storici dell’Antico Testamento impariamo infine che Dio interviene a favore dell’umanità non in astratto, ma impostando il proprio rapporto con il suo popolo nella storia, non fuori di essa. Ciò che costruiamo noi, a maggior ragione, è sempre figlio di un’epoca, di una cultura, di circostanze particolari: è così anche per la Costituzione del 1946-48.
Ma i costituenti ebbero allora una visione (terrena, ma una visione), che era quella di ricostruire l’Italia devastata dalla guerra nel paesaggio, nelle case, nelle infrastrutture e nel morale. Nell’animo, evidentemente, qualcosa restava: uno scopo prioritario in grado di unire rappresentati di forze diversissime. Non può sfuggire che oggi una «visione» del genere è assente. La politica quotidiana non può che risentirne. In questo panorama siamo chiamati a vivere, consapevoli dell’eredità di fede che abbiamo ricevuto.