Per un po’ più di teologia
22 ottobre 2014
Per gentile concessione degli autori – Stéphane Lavignotte e Olivier Abel, entrambi teologi protestanti francesi, il primo pastore della «Mission Populaire» a Parigi e il secondo professore di filosofia e etica alla Facoltà di teologia protestante di Montpellier – pubblichiamo un articolo uscito sul sito del quotidiano Le Monde.fr il 14 ottobre 2014
Molti sono meravigliati e felici di vedere che, per spiegare quello che sta succedendo in Iraq con l’autoproclamato «Stato islamico» e le sue conseguenze in Francia, non vengono sollecitati solo i geopolitologi, i sociologi o gli storici ma anche i teologi musulmani.
Ovviamente, noi abbiamo un dubbio su questo improvviso interesse per la teologia: non sarebbe un modo nuovo di fare dell’Islam un’eccezione? Di farne una realtà un po’ barbara, non completamente entrata nella storia? Di solito infatti constatiamo che la teologia è la grande assente dal dibattito pubblico. Essa ci sembra però essenziale per capire il mondo, compreso il nostro che dice di essere uscito dalla religione.
In diversi ambienti intellettuali, l’esclamazione «questo è teologia!» basta per squalificare un discorso, eco della formula abituale «non vogliamo mica entrare in un dibattito teologico». I teologi non possono essere altro che «talibani» fanatici o inutili idioti. Guai ai filosofi, storici, sociologi, ma anche militanti o insegnanti, che oserebbero interessarsi in qualunque modo alla minima idea «teologica».
Il guaio è che, come dimostrava Walter Benjamin con un’immagine accattivante, questa teologia svergognata e vergognosa risulta essere il nano gobbo nascosto sotto il palcoscenico che fa girare le principali rotelle dei nostri pensieri, delle nostre ideologie, delle nostre storie: e più questo nano è stato represso, più gli è stato lasciato pigramente il lavoro!
Le nostre società sono state vittime di avere trasformato in miti tre delle loro grandi speranze di deperimento: del capitale, dello Stato, della religione. Il mito del deperimento del capitale ci ha troppo spesso vietato di pensare seriamente la messa in atto di regolazioni specificamente economiche, di contropoteri senza i quali la forza economica diventa barbara. Il mito del deperimento dello Stato, sotto il quale si sono riparati regimi totalitari che, si pensava, sarebbero stati provvisori, ci impedisce tuttora di pensare la razionalità propria della politica così come i suoi mali specifici.
Lo stesso vale per il mito del deperimento della religione, a favore del quale sta proliferando oggi, nell’Islam, ma anche nel cristianesimo, nell’ebraismo, e in fin dei conti ovunque, un «checchessia» religioso, e che vieta di pensare sia la sua «razionalità», la sua credibilità, la sua legittimità specifica, sia la sua «irrazionalità», i suoi mali specifici, e cioè il fanatismo, la tartuferia, e in fin dei conti la perversione di quella che Paul Ricœur chiamava la «affidabilità di linguaggio» ordinaria delle nostre società.
A motivo della laicità, e della necessaria separazione tra le istituzioni religiose e lo Stato, la teologia come disciplina storica, filosofica, ermeneutica, critica, è stata bandita dall’università francese; è sopravvissuta, alla meno peggio, su alcuni strapuntini minoritari, o sotto certi statuti «confessionali». Ora, la teologia era il luogo principale della critica della religione, di un incessante lavoro di decostruzione e ricostruzione.
È grazie a questo lavoro di interpretazione che le tradizioni religiose si sono riconosciute nella pluralità costitutiva delle società moderne. È grazie a questo lavoro di interpretazione che esse hanno accettato il fatto che c’erano modi di trasgredirle, criticarle, abbandonarle, che erano modi inediti di essere fedeli al loro messaggio; ed è grazie a questo lavoro che abbiamo potuto uscire dalla religione. Una tradizione religiosa che non è più contenuta, coltivata e ripresa da questo incessante lavoro di regolazione e di creazione teologica, perde il senso dei limiti, delle differenze, e può invadere tutto in qualunque modo.
Certo, la teologia è una disciplina arcaica, che mescola lingue antiche, letteratura, storia, filosofia, ecc..., ma le facoltà di teologia sono uno degli unici luoghi dove rimane un interesse critico per la religione, per l’interpretazione dei testi canonici. I teologi musulmani non dicono forse che è di questa mancanza di teologia che sta soffrendo l’Islam in questo momento? Ma anche da noi, l’irrigidimento di una parte dei credenti di fronte all’omosessualità e alle evoluzioni della famiglia non è forse il segno di una visione troppo biologizzata e non abbastanza teologica della «legge naturale» o della figura della coppia Adamo ed Eva?
Questa mancanza di teologia non è solo vera per le questioni religiose. Dietro a tutte le nostre concezioni del soggetto e della politica, dell’economia e dell’immagine, del tempo e del mondo, si trovano dei «teologemi» – ossia delle immagini di Dio, dell’umano, della speranza, della salvezza... – spesso non visti, mal digeriti, e che sono tanto meno criticati, discussi, che sono semplicemente negati. La maggior parte delle nostre grandi idee secolarizzate sono state prima delle intuizioni religiose, prima di depositarsi, raffreddate, lontane da questo pericolo iniziale, ma la teologia era servita a canalizzarle, a renderle feconde.
E la nostra ipotesi è che ovunque vediamo amplificarsi gli integralismi, i fondamentalismi, nuove crociate e riconquiste immaginarie, è appunto perché abbiamo creduto di poter trattare la religione come un apparato ideologico di Stato, o come uno strumento di penetrazione del mercato, e che per questo ci troviamo al grado zero della teologia. È più facile vedere la pagliuzza teologica che è nell’occhio dei nostri fratelli o dei nostri nemici – donde l’interesse improvviso, nei media, per i teologi musulmani – che vedere le travi teologiche che stanno sotto i nostri propri modi di vedere, compreso quando crediamo che essi siano a-teologici! Ciò di cui soffriamo non è di un «troppo» di teologia, quel troppo che bracchiamo negli altri: è di un «non abbastanza» di teologia per pensare l’insieme delle concezioni del mondo.
La teologia, d’altronde, non appartiene alle religioni e ai «preti», è una tradizione immensa e diversa di cui ognuno può impossessarsi. La nostra memoria lo esige per fare un uso migliore del passato. La nostra immaginazione ne ha bisogno per fare un uso migliore del futuro. Il nostro presente la convoca per uscire da vicoli ciechi mortiferi.
(Traduzione dal francese di Jean-Jacques Peyronel)