Ricorre quest’anno l’anniversario – passato un po’ sottotono – della firma della Carta Ecumenica (2001-2016) che contiene le linee guida per accrescere la cooperazione tra chiese cristiane diverse. Da allora tanta acqua è passata sotto i ponti. L’ottimismo delle prime due assemblee ecumeniche europee – quella di Basilea: Pace nella giustizia (1989); e quella di Graz Riconciliazione: dono di Dio e sorgente di vita nuova (1997) – sembra aver esaurito progressivamente la sua forza. Fu a Graz che si lanciò l’invito alle chiese cristiane d’Europa a «elaborare un documento comune, che contenga i diritti e i doveri ecumenici fondamentali, e di dedurne una serie di direttive, regole e criteri ecumenici, che possano aiutare le chiese, i loro responsabili e tutti i loro membri a distinguere tra proselitismo e testimonianza cristiana, tra fondamentalismo e autentica fedeltà alla fede e a configurare infine in spirito ecumenico le relazioni tre le chiese maggioritarie e quelle minoritarie». Questo invito, sull’onda dell’entusiasmo che la visione ecumenica di Graz seppe accendere, fu preso sul serio da molte chiese cristiane europee. Il documento venne elaborato congiuntamente dalla Conferenza delle Chiese europee (Kek) e dal Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa (Ccee).
Il documento era ancora in bozza, quando ricevette 150 contributi da parte di Chiese europee. Si concretizzò così una vasta elaborazione collettiva spinta dalla fiducia nell’esercizio ecumenico. Ma ci vollero ben quattro anni di studio e di confronti, prima di arrivare alla fatidica firma della Carta Ecumenica a Strasburgo il 22 aprile del 2001. Nella foto ufficiale della firma comparivano il metropolita Jeremie, allora presidente della Kek, e il cardinale Miloslav Vlk, presidente del Ccee.
Oltre al cardinale Martini, un’altra figura che in quegli anni orientò la riflessione teologica in vista della Carta Ecumenica, fu la pastora luterana Elisabeth Parmentier (oggi docente di Teologia pratica a Ginevra). Sia a Graz («L’Europa è incinta, attende due gemelli, paura e speranza…») sia a Strasburgo la pastora Parmentier aprì i lavori offrendo questa forte immagine biblica: «Siamo tra il mattino di Pasqua e la sosta alla taverna di Emmaus. La strada che i due discepoli percorrono sembra quella di chi si assume la fatica ecumenica: sono senza speranza, sfiduciati, eppure Cristo li raggiunge e cammina al loro fianco…». Nei giorni della firma convennero a Strasburgo da tutt’Europa non solo i leader delle chiese ma anche un centinaio di giovani. Nell’aula universitaria, in cui venne solennemente firmata questa Magna Charta dell’ecumenismo europeo, erano stati disposti ben venticinque tavoli di consultazione (una sorta di stati generali dell’ecumenismo europeo), e intorno a essi sedevano i responsabili (uomini e donne di ogni età) di chiese diverse.
Tutto ciò accadeva quindici anni fa, in un Europa diversa. E fu un grande esercizio teologico ed ecclesiologico collettivo, un momento forte di consenso, ferme restando le differenze confessionali. S’innestava così – dopo la caduta del muro di Berlino e poco prima dell’attacco alle Torri gemelle di New York – un processo ecumenico coraggioso, che pronunziò parole chiare e coinvolgenti. Il popolo ecumenico presente in molte chiese acquistò coraggio e visibilità. Per la prima volta esso si vedeva riconosciuto da tante chiese cristiane diverse. E queste ultime non si sentirono schiacciate da un’imposizione superiore, ma apprezzavano che l’accordo ecumenico fosse partito dalla base e che fosse orientato verso impegni concreti.
Il varo della Carta a Strasburgo diede anche vita a un incontro intergenerazionale con forte accento sulla componente giovanile. Il punto di forza della Carta è certamente l’indicazione di una strada che attraversa la Parola biblica, nutrimento inesauribile delle relazioni tra cristiani di confessioni diverse. In quegli anni era presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia il giurista valdese Gianni Long (scomparso nel 2014) che commentò così, a Strasburgo, il varo del nuovo documento: «Con la Charta Oecumenica le tre grandi “famiglie” cristiane europee hanno affermato una serie di cose importantissime: hanno riconosciuto insieme il diritto di libertà religiosa dei singoli e delle altre confessioni, anche delle cosiddette “sette”; hanno insieme ripudiato il nazionalismo e il razzismo; hanno insieme riconosciuto che uno speciale rapporto comunitario li lega agli ebrei e contemporaneamente aperto all’Islam. Si tratta di affermazioni fondamentali; e a Strasburgo ho potuto verificare che talune di queste affermazioni sono tutt’altro che pacifiche all’interno di molte chiese. la Carta è una grande sfida per il futuro e non solo la registrazione di cose su cui l’accordo c’è da tempo».
L’ufficio di presidenza del Consiglio delle chiese cristiane di Milano ha recentemente deciso, in occasione del quindicesimo anniversario del varo della Carta Ecumenica, di «tirarla fuori dal cassetto» e riproporla all’attenzione delle chiese cristiane di Milano. Gli impegni ufficialmente assunti, a livello europeo, quindici anni fa da cattolici, protestanti e ortodossi conservano una loro indubbia attualità (nel testo si parla anche della necessità del dialogo interreligioso e del confronto con l’ebraismo e l’islam), ma i temi affrontati vanno rideclinati e rimodulati. In quindici anni il mondo è parecchio cambiato. Oggi siamo chiamati – in una società sempre più multiculturale e globalizzata – a uscire dai limiti di una dimensione culturale antropologica di matrice europea-occidentale, per evitare di costringere altri dentro schemi nei quali forse fanno fatica a riconoscersi. Bisogna, anche in ambito ecumenico, ricollocarsi nel tentativo sempre nuovo (e anche contraddittorio) di essere fedeli alla Parola che nutre le chiese. È l’unico esercizio che ci mantiene vivi e propositivi.