Dopo aver discusso della rivoluzione della stampa portata avanti da Gutenberg e del passaggio dalla rappresentazione mitica all'attualizzazione del messaggio biblico di Lucas Cranach il Vecchio, "l'artista di mezzo", la questione che analizziamo ha come centro il rapporto più problematico con le opere d’arte: l’iconoclastia. In quasi tutte le epoche si possono trovare episodi sporadici o sistematici di questa pratica che potremmo definire sia politica che religiosa. Nell’antico Egitto, per esempio, non era raro che i faraoni in carica cancellassero i cartigli che si riferivano al predecessore, e la troviamo anche nella storia della Riforma.
L’ospite che ci aiuta in questo percorso è Emanuele Fiume, pastore a Roma.
Cos’è l’iconoclastia?
«In ambito cristiano parliamo di una realtà sempre vissuta in termini piuttosto conflittuali che ha la sua espressione maggiore intorno al V secolo d.C. tanto in Oriente quanto in Occidente. Pratica legata anche a come la chiesa e il credente concepivano, e quindi usufruivano, del dogma dell’incarnazione della parola eterna nella persona storica di Gesù Cristo. Su questo vertono due polarità: la lettera ai Colossesi che parla di Gesù Cristo come dell’immagine, dell’icona, del Dio invisibile, un dato che richiama fortemente la questione dell’incarnazione e della rivelazione di Dio nella persona di Cristo; l’altro dato è che il nuovo testamento non presenta mai una descrizione fisica di Gesù, perché evidentemente il veicolo dell’incontro con la persona stessa di Cristo era la parola della predicazione, dell’insegnamento, della testimonianza e non l’immagine o la descrizione di tipo fisico. La chiesa antica oscilla tra queste due polarità e alla fine, lo sappiamo, prevale l’iconodulia, la venerazione delle immagini, anche se in maniera diversa in Occidente rispetto all’Oriente. L’icona ortodossa è qualcosa di diverso dall’immagine venerata nelle chiese cattoliche, è quasi l’elemento terreno che nell’arte viene deificato, invece nella pietà cattolica l’immagine è molto spesso concepita come un pezzo di divino che si materializza così che alcune immagine del santo o della madonna sono più venerate di altre».
«Qui è raffigurata la cosiddetta beeldenstorm, la battaglia delle immagini che avvenne a Ulm, città della Germania meridionale, che quando fu toccata dalla predicazione della Riforma vide una specie di tumulto della popolazione che distrusse e asportò le immagini sacre presenti nella cattedrale. Successe in forma abbastanza spontanea e disordinata, diversamente da altre città, come Zurigo o Ginevra, dove fu fatta la stessa operazione ma in forma piuttosto ordinata, tanto che ancora adesso nel sotterraneo della cattedrale di Zurigo sono presenti alcune statue riposte lì da allora.
Può colpire la forma indubbiamente violenta con cui a Ulm le immagini sono state asportate, così come le reliquie, che all’epoca avevano rivestito un’importanza liturgica molto diffusa e sentita; ma possiamo paragonare questa furia alla distruzione dei simboli negli Stati comunisti durante le rivoluzioni dell’89. Quelli che hanno asportato o distrutto le immagini sono coloro che in tutta la loro vita hanno pregato, viaggiato per trovare le reliquie, comprato le lettere di indulgenza per mandare più velocemente in paradiso i loro cari che erano morti e poi, ascoltando l’Evangelo della Riforma, avevano scoperto di essere stati brutalmente gabbati. Naturalmente la Riforma ha eliminato quello che era il culto delle immagini, secondo il comandamento della Scrittura; questo non vuole includere il divieto di immagini tout court, le immagini che non avevano uno scopo di venerazione come le vetrate, molto spesso sono rimaste al loro posto.
L’iconoclastia quindi non è una questione totalmente teologica?
«È legata all’aspetto della scrittura come principio regolatore del culto: Dio non vuole un culto che non sia stato stabilito dalla sua parola stessa, siccome la sua parola proibisce l’uso delle immagini, quella proibizione viene realizzata con questo senso di purificazione. Talvolta questo è successo con vero e proprio furore: il riformatore delle valli valdesi, Farel, è addirittura citato nel dizionario filosofico di Voltaire per un’azione di disturbo che finisce con la statua di un santo lanciata nel fiume. Non ci fu tolleranza da nessuna parte: molto evidentemente si è trattato di un fronte popolare molto caldo tra la riforma protestante e il cattolicesimo e quasi dappertutto questo ha determinato un immediato riconoscimento della cesura e della distanza tra la pietà riformata calvinista e quella cattolica.
L’effetto fu anche non previsto ma gravido di conseguenze per il nostro modo di vivere perché la fine di un’epoca che aveva dato tantissimo a livello di arte sacra in qualche modo sdoganava lo spessore dell’arte profana. Ai santi, la pittura in ambiente calvinista ha sostituito le persone in carne ed ossa: un esempio sono le famiglie borghesi ritratte nella pittura olandese del 1600; questo è stato possibile, con quell’intensità e voglia di raccontare l’umanità, soltanto perché le pale d’altare o le chiese non avevano più senso in quanto decorate per l’aspetto del culto.
C’è un’altra considerazione da fare sulla cultura che ha prodotto il divieto delle immagini e parte da una domanda: non avremmo potuto lasciare le immagini come libro aperto, come Bibbia dei poveri e degli analfabeti, in modo che raccontassero le storie dei santi, che spesso erano persone per bene, e le storie della Bibbia in modo che i laici potessero esserne istruiti? La risposta del catechismo di Heidelberg, il più grande catechismo riformato del ’500, è molto chiara e dice di no, perché le immagini mute non parlano, il Dio vivente si: tu impari a leggere e a scrivere per leggere la Bibbia anche se sei un contadino che fino a quel momento nessuno, tantomeno la chiesa, ha avuto un interesse a istruire».
«Questo è un pannello metallico che si trova sulla cattedrale protestante della città di Zurigo, la cattedrale del Grossmünster nella quale Zwingli è stato parroco, dando inizio alla riforma zurighese. Si vede un episodio della distruzione delle immagini che è in parte avvenuta in alcune chiese della città del contado, in parte controllata dall’autorità politica che aveva semplicemente asportato tutto quanto potesse contraddire il comandamento biblico. Addirittura, gli altari furono asportati e non sostituiti e la cena del signore veniva celebrata su un asse di legno collocato sul fonte battesimale con calici e patene di legno per ritornare all’idea della semplice obbedienza alla scrittura apostolica».
Il protestantesimo ha sviluppato uno stile artistico proprio?
«Si, soprattutto ha permesso, attraverso una stringente autolimitazione e autoregolamentazione, che nascesse o rinascesse un’arte profana. Esattamente lo stesso discorso vale per la musica: Johann Sebastian Bach andò a lavorare in una corte calvinista dove non c’era l’usanza luterana della cantata sacra, lì si cantavano soltanto i salmi di Ginevra piuttosto lentamente e non troppo bene. Siccome il principe lo pagava, gli chiese di produrre musica profana ma di alto livello: nascono così i concerti brandeburghesi, nasce la musica sinfonica e nasce da un’autolimitazione, dal controllo della chiesa riformata calvinista rispetto alla vita e all’espressione artistica dell’umanità. È molto importante quest’aspetto: la chiesa che limita se stessa e il proprio campo di azione, il che permette un fiorire artistico al di fuori».
È questo il più alto stadio dello sviluppo artistico del calvinismo?
«Si può dire così, anche se rivendico un altro punto di interesse, non solo della Riforma ma anche biblico, sulle immagini.
Siamo partiti dalla questione dell’immagine di Gesù Cristo, un’immagine non fisicamente rappresentata ma egli stesso immagine del Dio vivente, così come dice la lettera ai Colossesi. Si può andare al di là con due questioni: il filosofo Ludwig Feuerbach ci ha insegnato che l’immagine può anche non essere materiale, ma qualcosa che noi proiettiamo negli spazi, l’immagine del dio come piace a noi o che corrisponde al nostro desiderio, alla nostra ansia, alla nostra moralità, per cui può venir fuori una cosa che sta tra Babbo Natale ed Emergency. Questo oggi nell’Occidente è tragicamente diffuso anche all’interno delle chiese, il Dio vivente invece si manifesta con la sua parola e si è rivelato completamente nell’incarnazione di Gesù Cristo. Questa è la prima questione che oggi può scottare anche all’interno del mondo evangelico.
La seconda questione riguarda cosa è oggi ritrovare quella che è l’immagine di Dio; la Scrittura ce ne dà due: la prima è quella di Colossesi, Gesù Cristo, e la seconda è l’umanità stessa come è scritto nel libro nella Genesi, dove Dio dice che creò l’uomo a sua immagine e somiglianza. Il problema del peccato delle immagini emerge quando il rapporto si ribalta, cioè quando l’essere umano che è immagine di Dio, a sua volta crea un’altra immagine di Dio, illecitamente. Il profeta Isaia nel capitolo 44 parla di questo processo di creazione da parte umana dell’immagine in termini in qualche modo anche satireggianti: descrive l’artigiano che fa l’idolo e che poi coi pezzi di legno che restano si cucina il pranzo.
Cosa c’è da riscoprire nell’immagine, in quella vera, cioè nell’essere umano? C’è da ritrovare quella presenza, quel giudizio e quella grazia che tante volte una figura umana ci trasmette. Pensiamo a quanto hanno parlato alcune immagini di sofferenza umana che ci portiamo tutti nella nostra coscienza, l’immagine delle fotografie o dei filmati quando le truppe alleate sono entrate nei lager, le immagini della bambina vietnamita che scappa bruciata dal napalm, le immagini dei migranti, a volte terribilmente forti, che ci sono state riproposte. Altresì anche le immagini di gioia, di familiarità, di accoglienza. In questo senso l’essere umano non rappresenta Dio in un senso totale e perfetto, c’è una frantumazione di questo vaso creato; però qualche scintilla può essere colta e alla fine il luogo della gloria di Dio è l’umanità stessa, che è chiamata a diventare più umana nell’immagine perfetta che è il Signore Gesù Cristo.
Oggi avviene una distruzione di immagini che però, come succedeva in Egitto, è una sostituzione volta a lasciare una firma aggressiva del proprio passaggio nel mondo. Questo non cambierà il mondo, perché il mondo è stato cambiato in meglio soltanto da chi ha avuto l’umiltà di volerlo percorrere in punta di piedi».