Come sta la nostra fede?
10 agosto 2016
Verso il Sinodo valdese-metodista: a colloquio con il moderatore Bernardini
La spiritualità, nelle chiese del protestantesimo storico, è un oggetto un po’ sconosciuto, difficile a definirsi: come uno di quei calciatori che non si sa bene in che ruolo giochino, ma che quando per infortunio sono assenti lasciano un vuoto che preoccupa l’allenatore. Dello stato della spiritualità parliamo con il moderatore della Tavola valdese Eugenio Bernardini nell’intervista che, come ogni anno, ci introduce alle tematiche che saranno affrontate dal prossimo Sinodo (21-26 agosto).
«Alcuni anni fa – ci dice nello studio della Casa valdese a Torre Pellice – un anziano pastore è venuto a trovarmi nella chiesa che stavo servendo all’epoca, dove egli stesso per tanti anni aveva svolto il suo ministero, anche nei durissimi anni della guerra. Ebbene, ai membri di chiesa più anziani, che gli si stringevano intorno per salutarlo, non chiedeva: “come stai?”, bensì: “come sta la tua fede?”. Mi si svelò, allora, un fatto che considero ancora oggi: questa è la spiritualità che ha tenuto in piedi questa piccola minoranza, una piccola chiesa che non si sa bene dove abbia trovato le motivazioni per condurre un’esistenza che guardasse sempre oltre al benessere materiale e alla “riuscita” degli individui. Quelle generazioni hanno saputo edificare un senso della vita più profondo delle contingenze. Si dirà che è un tempo irrimediabilmente passato, purtroppo, ed è vero, ma quell’esigenza c’è ancora tutta: abbiamo tutti bisogno di allargare la visione della nostra esistenza, ristretta in uno spazio troppo angusto».
Perché questo è un problema avvertito in particolare dalle chiese del protestantesimo storico?
«È un problema di queste chiese, perché esse sono dotate di una strutturazione che risale molto indietro nel tempo: istituzioni solidamente radicate, ma anche tradizionali; ed è anche un problema, anzi forse è “il” problema ecumenico comune più rilevante oggi. Le stesse difficoltà nostre le riscontro proprio negli incontri ecumenici, essenzialmente con il mondo cattolico. Ma se devo immaginarmi una possibile risposta, una reazione a uno stato di cose che ci preoccupa, io credo che questa risposta non possa che stare in un’idea molto protestante, e cioè nel “ritorno alle fonti” (che poi, detto per inciso, è l’idea che innanzitutto animò i valdesi medievali). Le fonti, cioè la Scrittura e l’insegnamento di Gesù, nelle due articolazioni di questo insegnamento: da un lato innanzitutto la preghiera e la comprensione teologica del rapporto fra Dio e l’essere umano; e dall’altro il servizio verso il prossimo – due aspetti, evidentemente, distinti e collegati. Nella misura in cui saremo in grado di compiere questo ritorno alla fonte, la nostra spiritualità darà un senso alla nostra missione in Europa: un’Europa che ha un rilevante bisogno di ragionare sui temi della Grazia e della riconciliazione».
Quindi, quale dovrebbe essere l’orientamento dei singoli credenti e delle chiese?
«La nostra chiesa ha una precisa consapevolezza di questo bisogno, della necessità di vivere con una guida che viene innanzitutto dal rapporto quotidiano con la Scrittura. C’è però un problema, o meglio una nuova forma in cui si presenta un problema antico: non è una novità dire che in ogni comunità locale vi sia un certo numero di membri di chiesa che diventano “marginali”; e tuttavia oggi molte chiese si sono così assottigliate nella loro consistenza numerica, che chi non è strettamente coinvolto dalla vita comunitaria (penso a chi si fa coinvolgere soltanto nelle grandi occasioni, anche “civili”, come il falò del 16 febbraio) rischia di allontanarsi molto più di quanto non avvenisse un tempo. Essere ai margini vent’anni fa era diverso. La Conferenze del Primo e Secondo Distretto, nel giugno scorso, hanno posto delle precise sottolineature su ciò che è essenziale: si tratta ora di trovare forme e modi nuovi per ribadire, ancora una volta, che la Scrittura è importante, per ognuno e per le proprie famiglie».
Tanto più che di questa «edificazione» portiamo dei segni anche dove ci troviamo a vivere...
«Noi continuiamo a credere che la fede non sia indifferente anche nei confronti della vita civile; certo, il contesto e i tempi di vita sono cambiati, e quindi non saranno sufficienti gli appelli all’antico o al senso del dovere: le famiglie – come tutte le famiglie – hanno vere e pesanti difficoltà nell’organizzare le proprie settimane, e queste difficoltà vanno prese sul serio. Le chiese, quindi, devono offrire degli spazi per coltivare più di prima la formazione delle persone e per educare all’ascolto di quel “qualcosa” che ha a che fare con lo Spirito, anche nella quotidianità. Sul rapporto tra predicazione e diaconia, abbiamo chiarito anche in testi ufficiali [la Carta della diaconia del 2014, ndr] la necessità di “crescere insieme, scambiarsi, chiamarsi a reciproche responsabilità, ritrovarsi a rispondere allo stesso Sinodo...”: a volte diventa difficile mettere in pratica queste linee guida, e per questo serve un maggiore ascolto vicendevole».
Si diceva dell’ecumenismo: è questa una nuova stagione?
«Non si può negare che la visita del Papa al tempio valdese di Torino (giugno 2015) abbia impresso una accelerazione, che ha portato, per esempio, l’arcivescovo di Palermo a venire al culto nella nostra chiesa e a portare la sua predicazione. Ma certo noi protestanti e il mondo cattolico siamo resi più umili dalle sfide della secolarizzazione, sfide che dobbiamo condividere. Non siamo diventati “uguali”, ma non possiamo più basare la nostra missione sull’avversione reciproca: non solo sarebbe sbagliato teologicamente, ma non servirebbe a nulla. Stiamo dando corso – come è risultato dalla Conferenza del Primo Distretto – alla redazione di una liturgia ecumenica del battesimo per i figli delle coppie interconfessionali: un progetto che per anni era stato fermo e adesso procede.
Per queste motivazioni abbiamo costituito l’“Osservatorio ecumenico”: quello del dialogo ecumenico è uno sbocco naturale della nostra presenza sul territorio, che ci porterà anche a riflettere nel convegno di Trento (16-18 novembre) organizzato con la Fcei e la Conferenza episcopale, per l’approssimarsi del 500° anniversario della Riforma. E a questo proposito il 3 dicembre avremo alla chiesa valdese di Roma – p. Cavour un incontro delle chiese battiste metodiste, valdesi e luterane che dovrà licenziare una Dichiarazione in vista del 2017 e che preluderà alla giornata di culto previsto a Milano a Pentecoste: siamo chiamati, infatti, come chiese del protestantesimo storico, a dare una risposta originale e diversa da quella di altre chiese, anche nei riflessi che riguardano il confronto nello spazio pubblico. Tutti, proprio tutti, siamo alla ricerca di nuovi linguaggi».
Un altro capitolo molto sentito nelle chiese locali è quello della materia etica e bioetica...
«Molte chiese hanno fornito risposte e osservazioni relative al Documento sulle famiglie messo a punto dalla relativa Commissione: spero che il Sinodo possa trovare un tempo congruo per discuterne approfonditamente, e che di conseguenza la Commissione possa redigere un testo da approvare al Sinodo 2017. Rimane sul tappeto la discussione sulla materia più rilevante che ci viene dal mondo della scienza e dalla società, e che riguarda il fine vita, sul quale sembra davvero difficile prendere delle posizioni in termini assoluti».
Nel corso del culto che aprirà il Sinodo il 21 agosto non ci saranno consacrazioni: dobbiamo preoccuparci?
«Si tratta di un fatto accidentale, l’anno prossimo ne avremo probabilmente un buon numero. Non direi che le nostre chiese soffrano di carenza di vocazioni pastorali, anzi ne abbiamo più di quelle che possiamo permetterci in base alle nostre risorse economiche. Quello che ci preoccupa di più oggi non è il numero delle vocazioni ma la loro qualità, spirituale e “professionale”: per questo i percorsi formativi sono diventati più esigenti».