Jerome Bruner, ovvero come ci immaginiamo il mondo
21 giugno 2016
Scompare a oltre cent'anni lo psicologo statunitense di origine ebraica
Compiuti i cent’anni, Jerome Bruner è morto il 5 giugno a New York secondo quanto riportato dal Washington Post in un articolo in cui si rievoca la figura dello psicologo statunitense, ebreo di nascita e figlio di immigrati provenienti dall’Europa dell’Est, rimasto orfano di padre all’età di dodici anni. Diede un importante contributo allo sviluppo della psicologia cognitiva e della psicologia culturale nel campo della psicologia dell’educazione, sottolineando che i processi mentali hanno un fondamento sociale e culturale: ambiti disciplinari di confine che nell’accademia americana erano presenti e che potei sperimentare durante il mio primo anno all’estero alla University of California a Los Angeles – dove vi era un dipartimento di Antropologia psicologica in cui seguii i corsi di studi psicoculturali – nell’anno 1987-88.
Jerome Bruner era molto conosciuto ed era da poco rientrato negli Stati Uniti dalla Oxford University dove aveva insegnato fino al 1980, per passare alla New School di New York e successivamente alla New York University. Precedentemente aveva insegnato alla Harvard University portando avanti il superamento dell’approccio della «scatola nera» di Burrhus F. Skinner, ovvero della psicologia comportamentista che riteneva, in sintesi, che la mente fosse una sorta di tabula rasa intellegibile solo attraverso i comportamenti che ne scaturivano, in modo passivo.
Avendo appena studiato quel filone di studi all’Università di Padova, da cui provenivo, non mi sembrava vero di essere in America e di poter immergermi in studi interdisciplinari che consentivano di coniugare teorie dello sviluppo e dell’apprendimento, cultura e psicologia grazie a personaggi come Bruner che si dedicavano incessantemente a ricerche che, come ha sottolineato un altro gigante della psicologia, Howard Gardner, non si stancavano di attraversare i confini disciplinari.
I primi studi di Jerome Bruner riguardarono la percezione – era nato cieco e aveva cominciato a vedere all’età di aveva anni – ma non nel senso puramente biologico o psico-fisiologico, bensì dal punto di vista di come ci immaginiamo il mondo, influenzati dalle matrici culturali, dalle motivazioni, dalle emozioni, dall’ambiente di apprendimento. Poi vennero gli studi in psicologia cognitiva e il ruolo del linguaggio e in seguito contribuì a ridisegnare il curriculum nelle Scienze sociali che doveva influenzare tanti studenti.
Jerome Bruner negli ultimi trent’anni si è dedicato alla narrazione secondo un approccio del tutto particolare che metteva in luce spontaneità e intuizione, attribuendo agli insegnanti il compito di scoprire il potenziale umano in ogni alunno e alunna, sorprendendosi ancora e di nuovo nell’osservare come il sé costruisce il mondo, anche dal punto di vista dei significati, attraverso le storie e la narrazione, ipotizzando una forma narrativa di pensiero con effetti anche sulla memoria.
L’ultima volta che venne in Italia in visita fu grazie all’Università di Bologna e alla Fondazione Sigma-Tau. Era il 2000 e tenne un ciclo di lezioni al Dams che divenne un libro (La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura, vita, Laterza 2002). In quegli anni collaboravo all’Unità psicosociale e di integrazione culturale dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni e avevamo costruito un modello di intervento che venne poi chiamato etno-sistemico-narrativo perché cercava di attingere all’interdisciplinarietà dell’etnopsichiatria, pur integrando anche altri approcci della pedagogia interculturale in vista di un cambiamento di prospettiva sul potenziale di apprendimento di migranti e rifugiati in un paese ospite. Le lezioni italiane di Jerome Bruner erano state concepite per il nuovo millennio, con uno sguardo cioè rivolto al futuro, in cui si affermava che psicologia e letteratura hanno radici comuni pur portando diversi frutti. Il libro era appena uscito e fu uno strumento prezioso per sviluppare quell’approccio che voleva restituire ai migranti la capacità di narrare la loro storia di vita diventandone protagonisti.