Un’integrazione dei diritti e dei doveri
06 aprile 2016
Rubrica «Essere chiesa insieme», a cura di Paolo Naso, andata in onda domenica 3 aprile durante il «Culto evangelico», la trasmissione di Radiouno a cura della Fcei
A seguito dei tragici fatti di Bruxelles, da più parti si è parlato dell’integrazione mancata di molti giovani, figli o nipoti di immigrati. Gli attentatori, come già quelli di Parigi qualche mese fa, non appaiono infatti un fenomeno d’esportazione, ma un avvelenato frutto locale che, giustamente, spaventa gli europei ma anche, e forse in forma maggiore, l’assoluta maggioranza di immigrati che vivono in Europa amandone i valori che la animano e rispettandone le leggi che essa si è data. La storia delle immigrazioni europee ci insegna che non basta garantire un lavoro e una casa, magari nelle banlieues parigine o nei quartieri etnici londinesi, veri e propri ghetti del nostro tempo. L’integrazione, insomma, non si acquisisce come una patente o un documento di identità. Essa è piuttosto un processo che cresce e si consolida nel tempo, che richiede investimenti, a esempio favorendo la nascita di quartieri multietnici in cui europei e immigrati vivano insieme; o realizzando specifici programmi interculturali nelle scuole; o attraverso un’informazione che non riduca l’immigrazione a problema di emergenza sociale, ma che invece racconti le tante storie positive di immigrati che contribuiscono alla crescita economica, culturale e sociale dell’Italia e dell’Europa. Inoltre, una buona e solida integrazione non impegna solo gli immigrati ma anche i cittadini residenti: essa è dinamica, produce un cambiamento anche nella società che accoglie. Insomma, non è solo questione di kebab, couscous e Chinatown, è un processo più profondo che tocca i doveri e i diritti di cittadinanza. Una buona integrazione non può tollerare comportamenti o atteggiamenti incompatibili con i principi e le norme dello Stato. Negare a una donna il diritto allo studio, decidere al suo posto se si debba sposare e con chi, limitarne la libertà personale, è e resta un abuso, a dispetto di qualunque identità culturale o religiosa. Una buona politica di integrazione deve contrastare, reprimere e sanzionare queste che restano violenze sulla persona. Ma una buona integrazione si costruisce anche sul fronte dei diritti, a iniziare da quello di cittadinanza, e quindi di voto, e senza ignorare il diritto costituzionale a esercitare liberamente il culto in pubblico e in privato. Nelle scorse settimane una sentenza della Corte costituzionale ha di fatto annullato una cattiva legge della Regione Lombardia tesa proprio a «tagliare i minareti», come hanno scritto alcuni giornali, ma insieme a essi a impedire che altre confessioni potessero aprire luoghi per la preghiera, il culto e l’aggregazione comunitaria. E allora, se l’integrazione cresce con i diritti e i doveri, occorrono anche leggi che tutelino efficacemente la libertà di aprire moschee, chiese e templi nei quali ognuno possa invocare Dio come crede, ma nei quali, al tempo stesso, si predichino parole di convivenza e di dialogo.