Le trivelle e la questione ambientale
05 aprile 2016
Il referendum del 17 aprile e la coerenza con Cop21
Il 17 aprile i cittadini italiani sono invitati a esprimersi in un referendum abrogativo sull’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, «Norme in materia ambientale». I promotori del referendum sono nove Regioni: Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise, guidate da giunte sia di centrosinistra sia di centrodestra. Nello specifico il referendum chiede l’abrogazione delle seguenti parole dal testo di legge: «per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale». Con ciò intende indire un graduale smantellamento di alcuni impianti di esplorazioni e trivellazioni dei giacimenti di idrocarburi (petrolio o gas) entro le 12 miglia marine dalla costa: sette al largo della Sicilia, 5 della Calabria, 3 della Puglia, 2 della Basilicata e dell’Emilia Romagna e una del Veneto e delle Marche.
Se dovesse vincere il «Sì» tutte le concessioni in essere verrebbero costrette a cessare progressivamente fino alla scadenza dei contratti attualmente attivi. Gli impianti sarebbero costretti a essere smantellati anche se il giacimento non fosse ancora esaurito. Il referendum mira a incidere proprio su questo punto, imponendo uno stop, per quanto non immediato, e vietando le proroghe. In altre parole, nel giro di qualche decennio verrebbe fermata l’estrazione in tutti gli impianti di vecchia concessione, la cui attività è ormai ridotta perché si tratta di giacimenti i via di esaurimento. In totale meno del 26% della produzione di gas naturale, e il 9% di quella petrolifera, verrebbero chiuse progressivamente.
Se dovesse vincere il «No», o il referendum non ottenesse la partecipazione del 50% più uno degli aventi diritto al voto, la situazione attuale rimarrebbe invariata. Vale a dire che le ricerche e le attività petrolifere già in corso non avrebbero una scadenza già fissata ma potrebbero proseguire fino a esaurimento del relativo giacimento. È anche possibile per le compagnie presentare una richiesta di prolungamento dell’attività che potrà essere eventualmente autorizzata solo dopo una valutazione di impatto ambientale.
Le ragioni del «no». I fautori del «no» portano l’attenzione sul fatto che la stessa legge include già un divieto per le nuove «attività di ricerca, di prospezione nonché di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi» entro le 12 miglia marine delle acque nazionali italiane. La legge evidenzia quindi già un’attenzione per la salvaguardia ambientale. Il suo rafforzamento tramite lo smantellamento degli stabilimenti esistenti sarebbe eccessivo. Un forzato smantellamento rischierebbe a portare le aziende trivellatrici a contenziosi con lo Stato. Contenziosi che potrebbero aggiungere nuove spese per cause e eventuali indennizzi. Il settore estrattivo offshore (cioè: a mare), inoltre, provvede insieme al suo indotto per non pochi posti di lavoro: 4200, secondo la Fondazione Eni «Enrico Mattei» in Val d’Agri, dove si estrae circa il 65% del petrolio nazionale. Riguardo ai rischi ambientali viene rilevato che il temuto danno ambientale non ci sia stato, come viene attestato anche dall’alta qualità delle acque marine presso le coste, per esempio, dell’Adriatico, dove alla sola Romagna sono state assegnate 9 «bandiere blu».
Le ragioni del «sì». Rispetto al mancato impatto ambientale, Greenpeace porta all’attenzione che, per esempio, sulle attività offshore in questione dell’Eni non esistono analisi di impatto ambientale. Secondo un comunicato dell’azienda le proprie attività «non emettono scarichi a mare, né effettuano re-iniezione di acque di produzione in giacimento, pertanto non ci sono piani di monitoraggio prescritti». Un mancato controllo, tuttavia, non è garanzia per l’assenza del danno ambientale quotidiano, per non parlare del rischio di incidenti con i conseguenti disastri ecologici. Anche se questo non dovesse verificarsi mai, già la mera estrazione e utilizzo degli idrocarburi libera ingenti quantità di CO2 nell’aria. Secondo ricerche autorevoli, se si vuole mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2°C, come raccomandato nel documento finale della COP21, un terzo delle riserve di petrolio e la metà di quelle di gas non dovrebbero essere estratte.
L’Associazione per lo studio del picco del petrolio (nata nel 2001 e che riunisce scienziati e ricercatori europei) è dunque convinta che non toccare gli idrocarburi sia un’azione saggia: «Tutti i benefici relativi agli idrocarburi non estratti possono essere lasciati ai nostri figli e nipoti che ce ne saranno grati», perché «gli idrocarburi non hanno solo usi energetici, ma sono materie prime fondamentali in vasti campi di applicazione dell’industria petrolchimica come la produzione di polimeri (plastiche), farmaci e fertilizzanti». Rispetto alla mancanza dei posti di lavoro va riconosciuto che le attività estrattive degli idrocarburi sono fra quelle a maggior intensità di capitale, e pertanto a più bassa intensità di lavoro. Un pari investimento sulle energie rinnovabili creerebbe, nell’immediato, molti più posti di lavoro quanto la perdita di quelli esistenti.
I fautori del «sì» sono consapevoli del danno economico, ma illustrano come la sua dimensione sia un sacrificio sostenibile. Complessivamente gli idrocarburi italiani coprono un fabbisogno del circa 10% del fabbisogno annuale nazionale. Ciò che nel caso del Sì verrebbe a mancare sarebbe meno del 26% di questa produzione di gas naturale e del 9% di quella petrolifera, a diminuire tra il 2017 e il 2027. Il centro studi Nomisma, partecipato da banche e industrie italiane, tenta di farne un calcolo in termini di perdita economica e viene a conclusione che l’intero settore degli idrocarburi ha valso circa un miliardo di euro all’anno nel periodo 2000-2010. Un «sì» al referendum si tradurrebbe in una perdita di circa 170 milioni di euro all’anno.
Il sostegno di questo danno servirebbe più di tutto per dare un forte segnale di volontà politica: uscire dal «paradigma fossile» per investire le risorse nelle energie rinnovabili. Questa volontà è anche il contenuto di una collaborazione del gruppo informale «Ritiro dal carbone» del Parlamento Europeo insieme all’Ecen (Rete ambientale delle chiese europee presso la Conferenza europea delle Chiese). La cooperazione è stata inaugurata il 27 gennaio di quest’anno (v. Riforma n. 5, p. 4) in seguito agli accordi di Parigi. Dal biblico incarico di custodia del creato le Chiese europee (accanto ai movimenti degli altri continenti) deducono con crescente convinzione l’abbandono dell’economia dell’eccessivo sfruttamento delle risorse non rinnovabili. L’amorevole riguardo per il creato, accanto al pensiero per le generazioni future, deve porre un freno al cambiamento climatico dovuto in gran parte allo sfruttamento degli idrocarburi. Dopo la chiara espressione di questa volontà anche da parte degli stati riuniti per la COP21 a Parigi, il referendum nazionale potrebbe essere l’occasione per sigillare il cambio con l’espressione dell’italiana volontà popolare.