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I can make a difference

Dio può trasformare la vita di chi ha fede. Continuano le riflessioni dall'esperienza Effee a Chicago

Ma che differenza c'è con le chiese degli Usa? Quando tornerò sarà la prima domanda e allora tanto vale rispondere subito. Due frasi riassumono il senso della risposta. La prima: «In my time, in my space, by God's grace, I, you, we, can make a difference» (Nel mio tempo, nel mio spazio, ossia nel mio contesto, mediante la grazia di Dio, io tu noi possiamo fare la differenza ). Il reverendo Otis Moss ha conosciuto Martin Luther King, ha predicato e militato come pastore e come attivista per i diritti civili per più di 40 anni e ora traccia, di fronte ad un piccola folla riunita al seminario teologico di McCormick, la storia della conquista dei diritti civili degli afroamericani nell'ultimo secolo. Il palmo delle mani rivolte verso l'alto come se fosse una preghiera e non una conferenza pubblica. L'appello all'impegno personale, l'idea che una conferenza non deve solo istruire ma trasformare l'individuo affinché tu possa, per grazia di Dio, trasformare il mondo. La chiamata si concretizza in un appello affinché i presenti si impegino a rendersi testimoni di ciò che verrà detto e che è stato agito nel passato o in un piatto che passa durante una riunione interconfessionale e nel quale vengono raccolti i 250$ che servono a acquistare una pagina di giornale per pubblicizzare l'evento di cui si sta discutendo in quella stessa riunione. L'idea ottimistica che il mondo e noi stessi possiamo essere trasformati in meglio. Non l'autorealizzazione di sé o, come troppo spesso è diventato il sogno americano, un fragile confine tra quelli che “ce la fanno”, pochi, a scapito di altri e del mondo e i molti “che falliscono”. By God's Grace, non è la traduzione del nostro “grazie a Dio” o “aiutati che Dio ti aiuta” ma è l'espressione della convinzione profonda che Dio ha e può ancora trasformare la vita di coloro che così confessano la propria fede. E di questo ringraziano Dio nella preghiera.

“Joy & Concerns”. Così indica il foglio della liturgia nella chiesa presbiteriana di Edgewater. Gioia e preoccupazioni potremmo tradurre. Prima del sermone chi vuole dice per cosa è preoccupato o per cosa vuole ringraziare Dio quella settimana. Un lavoro trovato, un tumore da curare, una famiglia senza soldi, una litigata, una difficoltà in chiesa, una guerra lontana. C'è tutta la nostra vita, c'è tutta la comunità che si racconta, che sceglie cosa condividere e cosa no. La comunità si costruisce di fronte a Dio, nella gioia e nelle preoccupazioni che diventano di tutte e tutti nella voce della preghiera che chi predica costruisce raccogliendo le frasi di chi ha parlato e di chi ha preferito restare in silenzio. “Joy & Concerns” invece di intercessione. L'espressione è più semplice, più immediata, forse teologicamente più discutibile ma, come si dice, funziona. Se davvero la comunità pensa che Dio mediante la grazia abbia cambiato la nostra vita allora, sarà più facile dire la nostra gioia e condividere le nostre paure. La comunità sarà più capace di essere tale e ci si preoccuperà di meno di avere un'espressione teologicamente corretta. Se davvero “per grazia di Dio” siamo stati trasformati da Dio e siamo stati resi capaci di trasformare il mondo, perché non dirlo? Perché vergognarci di chiedere aiuto o di condividere le nostre paure e la nostra felicità?

Il reverendo Otis Moss conclude la sua conferenza: «Il dr. King non ha finito il lavoro, nemmeno President Obama è riuscito a fare molto, ma noi possiamo concludere il lavoro by God's Grace». Un centinaio di persone si alza in piedi contemporaneamente e risponde Amen. Sono uno dei pochi bianchi. C'è ancora molto lavoro.