Hong Kong e la rivoluzione degli ombrelli
30 settembre 2014
Gabriele Battaglia di China Files, in collegamento da Pechino, racconta le proteste nell'isola asiatica
Dal 27 settembre migliaia di manifestanti hanno bloccato le strade di Hong Kong per protestare contro la decisione della Cina di non permettere libere elezioni nel 2017. Alla manifestazione degli attivisti di Occupy Central, si sono aggiunti molti studenti e cittadini dopo che la polizia ha lanciato gas lacrimogeni e usato manganelli per disperdere la folla. Il ministero degli Esteri cinesi ha avvertito gli Stati Uniti e altre nazioni di non immischiarsi negli affari di Hong Kong affermando che le proteste sono una questione interna. Ne abbiamo parlato con Gabriele Battaglia di China Files e corrispondente di Radio Popolare, in collegamento da Pechino.
Come commenta i titoli di oggi?
“Interessante notare come sui giornali il conflitto appaia come tra la Cina e Hong Kong. In realtà la situazione è molto più articolata: sull'isola vi sono forze che appoggiano la Cina e la soluzione cinese, e altre che appoggiano il movimento OccupyHK. La chiave di lettura sociale è quella giusta: ha più senso guardare questo movimento da lontano, perché la questione non è solo quella sul suffragio universale che esiste già: il problema è che la Cina ha deciso di filtrare i candidati. La Cina non ha determinato un ritorno indietro rispetto ai 150 anni di dominio britannico, ma ha ereditato il sistema precedente, quello coloniale. Da anni però è in corso un tentativo per riformare il sistema con una discussione ampia. Nel 2017 ci sarà il suffragio universale ma non la scelta diretta dei candidati. Il punto è che dietro questo conflitto politico, Hong Kong vive problemi più profondi. I cittadini non si sentono cinesi e hanno sempre più paura della Cina, perché si è stabilita un alleanza tra il Partito Comunista Cinese e il grande capitalismo dell'isola, per cui il 70 % delle aziende quotate alla borsa sono della Cina continentale. C'è un blocco sociale che vuole mantenere il potere e non permettere una serie di riforme in tema di lavoro e uguaglianza sociale.
All'interno del movimento la situazione è sfuggita un po' di mano, sono scesi gli studenti e i sindacati in piazza. L'elemento uniformante di OccupyHK è la riforma elettorale, ma esprime un disagio molto più profondo e su questo aspetto che si gioca il futuro dell'isola”.
Hong Kong è abituata a queste proteste?
“No. Ha fatto grande scandalo l'utilizzo dei lacrimogeni da parte della polizia, che non avveniva dal 2005. Molte persone, gente comune, per questo si sono unite alla protesta per solidarietà. Da un punto di vista occidentale la polizia si è comportata in modo democratico; non stiamo parlando della polizia cinese. Sui media cinesi sono circolate delle analisi interessanti su quello che sta succedendo, secondo cui il parallelismo con Tienammen '89 non c'entra niente, la Cina è cresciuta e non è più quella di vent'anni fa. Nella Cina continentale ci sono circa 200mila 'incidenti di massa' all'anno, ovvero manifestazioni con più di cento persone. Oscillando tra repressione e mediazione sociale, la Cina riesce a gestirle”.
La Cina ha paura delle ingerenze straniere?
“Il tallone d'Achille della Cina è quello di vedere ingerenze straniere dappertutto. Ma è anche un gioco delle parti, puntare il dito contro il nemico esterno fa rimuovere le contraddizioni interne. La leadership cinese è consapevole delle proprie contraddizioni e il Pcc non è un monolite: al suo interno convivono nostalgici maoisti e neoliberisti di stampo anglosassone. La Cina ha paura che la perdita di controllo del Pcc determini uno stato di anarchia e di caos: avere Hong Kong in agitazione è qualcosa che dà fastidio”.
Ipotesi sul futuro della protesta?
“Una possibilità è che Chun-ying Leung (capo del governo locale di Hong Kong – ndr) possa essere sacrificato sull'altare della pacificazione sociale. Il movimento ha trasferito le proprie rivendicazioni dall'elezione diretta alle sue dimissioni. Ma l'impressione è che anche a Pechino possano mollarlo. Proponendo una figura più di mediazione troveranno una soluzione 'all'orientale', che faccia scorrere l'acqua sotto il ponte e lasci che le cose si risolvano da sé. Ma non è detto che non possa ancora avvenire un'escalation”.