Uno storico del cinema aperto alla dimensione spirituale
12 gennaio 2016
Un ricordo di Gianni Rondolino, scomparso la settimana scorsa
Con Gianni Rondolino, per molti anni docente di Storia del cinema all’Università di Torino, scomparso sabato 9 gennaio pochi giorni prima di compiere 84 anni, il mondo dei cinefili perde senz’altro un punto di riferimento; la maggior parte di loro ne avrà ben presente il nome anche solo per aver dovuto studiare sulla sua fondamentale Storia del cinema (Utet). A lui (e al documentarista Ansano Giannarelli) si deve l’invenzione nel 1982 del Festival internazionale Cinema giovani, oggi Torino Film Festival, così come le monografie su Luchino Visconti e Roberto Rossellini (Utet 1981 e 1989), ma ancor più gli si deve la lungimirante Storia del cinema d’animazione (Einaudi 1974), pubblicata quando ancora ben pochi sapevano che tale genere non era limitato ai soli cartoon di Walt Disney.
Uno storico del cinema e un suo appassionato spettatore, dunque, ma anche un professore che sapeva coinvolgere gli studenti in gruppi di discussione e di crescita collettiva. Passando dalle sue aule al suo studio negli anni ’80 ho avuto modo di conoscere questo pensiero cinematografico ad ampio raggio: il primo corso seguito nel suo insegnamento (1980-81) era dedicato per esempio al più grande autore di cinema astratto della seconda metà del ’900, il canadese Norman McLaren; fummo stupiti di questa scelta, aspettandoci un autore o una scuola di quelle «nuove ondate» che erano state per tutti gli anni ’60 e ’70 all’attenzione della passione cinefila mischiata all’impegno politico. E poi fummo affascinati dal corso.
Ma quanto detto finora troverebbe spazio in qualunque rievocazione, mentre a me preme ricordare il docente universitario che incontrava i più giovani: il figlio maggiore Fabrizio era studente nel mio stesso liceo, e il padre spiegò a tutti noi, in un cinema poco distante dal «V.Alfieri», Dersu Uzala di Akira Kurosawa e L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi, con notazioni ovviamente accessibili a quell’uditorio, ma che non nascondevano le ragioni morali e spirituali, oltre che estetiche, di quelle pellicole.
Ulteriore e più profonda conferma, al Salone della Casa valdese di Torino nella primavera 2008, nell’incontro in cui si prestò a presentare un mio lavoro sui rapporti fra Ingmar Bergman e la Bibbia. Nel mio testo citavo fra l’altro la tesi di laurea in Teologia del pastore Peter Ciaccio (Modelli pastorali nel cinema: l’esempio di Ingmar Bergman, Facoltà valdese di Teologia, A.A. 2003-2004), e quindi venne spontaneo all’altra relatrice, la pastora Daniela Di Carlo, orientarsi proprio sulle ricadute che la pratica pastorale produce in famiglia (e di cui i film di Bergman sono permeati). Rondolino invece, esulando dal suo specifico di storico del cinema, andò proprio a cogliere un preciso riferimento biblico: la fede come «certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono» (Ebrei 11, 1). A parte il fatto che l’ultima frase è un’enunciazione paradossalmente inversa alla natura del cinema (che è quasi sempre visione di una realtà che non c’è, fittizia e immaginata), fu puntuale il suo discorso nell’affermare la presenza di questo anelito, di questa ansia e ricerca, nel cinema di Bergman: figlio di un pastore luterano, il regista svedese aveva fin da giovane abbandonato «ufficialmente» la fede e la chiesa; ma il sostrato biblico della sua formazione non cessava di scaturire dai suoi personaggi.
Fu dunque una bella soddisfazione (non una sorpresa, noi allievi sapevamo che il professore era aperto alla dimensione della fede, ma con la discrezione che gli era tipica) ricevere un contributo «teologico» quando mi aspettavo quello più tecnico; ma appunto, ciò faceva parte del personaggio.