Generazione Bataclan?
08 dicembre 2015
I ragazzi morti nell'attentato del 13 novembre non sono martiri ma vittime della violenza dei "mostri della porta accanto"
Generazione Bataclan. È un’espressione che ricorre sui media e che mi infastidisce perché sembra dimenticare che ognuno dei morti nella strage parigina aveva una sua vita propria, una sua inimitabile identità. Non è morto né un gruppo né una comunità: sono morte delle persone, diverse le une dalle altre. E in questo non c’è nulla di eroico, anche se sono state uccise, anche se non dovevano morire. Invece assistiamo a un’esaltazione di questa generazione giovane e libera, quasi fossero dei martiri, mentre non sono altro che vittime innocenti, uomini e donne che non rendevano testimonianza altra se non di se stessi. Perché procurare loro una violenza ulteriore dipingendoli per quello che non sono, affibbiandogli etichette tutte nostre? Abbiamo forse bisogno di pensarli migliori di quello che siamo noi? Anche se fossero state persone mediocri o meno libere, la loro morte sarebbe stata meno grave? E ancora: libere di cosa? Di fare l’amore, di ascoltare musica, di mangiare slow, di utilizzare i social network?
Personalmente sono fiera delle libertà che la cultura dell’Occidente mi ha dato, e mi sento riconoscente verso coloro che le hanno conquistate anche per me; le trovo irrinunciabili ma non sento di avere il diritto di autocompiacermene. Sento, piuttosto, di dover assumere un atteggiamento laico e sobrio nei confronti di questa libertà evitando il rischio di farne un idolo. Anche questo, infatti, ho imparato dalla cultura occidentale: a relativizzare il mio punto di vista, a riconoscere la mia parzialità di umana creatura.
Dopo le terribili stragi di Parigi, più che riaffermare a piena voce la nostra libertà contro la barbarie, proverei, rifiutando facili dicotomie, a interrogarmi su chi sono questi mostri della porta accanto. A me suscitano proprio una curiosità antropologica perché non riesco a vederli come totalmente altro da me. Almeno non lo erano prima del grande salto, prima che ogni forma di consapevolezza e di pietà li facesse cedere a una pulsione di morte che rischia di essere contagiosa. Come ha ben scritto Emanuele Trevi sul Corriere della Sera del 21 novembre: «Come tutti i loro contemporanei, questi disgraziati si lasciano dietro un mare di tracce digitali: selfie e messaggi che fino a un certo punto della loro storia li mostrano indistinguibili da tutti gli altri, nell’infinita serie di variabili che rientrano comunque in un concetto approssimativo di “normalità”. Poi avviene una specie di salto invisibile, come una morte apparente che genera una nuova vita irriconoscibile, e il ragazzo che cantava il rap ci guarda truce e demente, brandendo un mitra, lo sguardo ridotto a una fissità maniacale, come se un congegno fantascientifico fosse riuscito a espellere da lui ogni forma di coscienza e di empatia. Cos’è accaduto? Nessun selfie potrà mai catturare il momento della metamorfosi. È proprio su questa casella vuota e oscura che bisogna esercitare l’intelligenza».
L’esercizio dell’intelligenza per comprendere meglio la casella vuota non può giocarsi, secondo me, sul registro della contrapposizione dei valori e sull’ostentazione della nostra libertà di occidentali. Dobbiamo semmai riaprire il dialogo con le periferie, luoghi in cui c’è spazio ormai anche per l’inconcepibile. Periferie che non sono solo quartieri difficili ma modi di essere e di pensare che riguardano ognuno di noi. Bisogna tornare a lavorare in silenzio anziché affannarsi a trovare la storia commovente, come quella del giornalista francese Antoine Leiris cui hanno brutalmente ucciso la moglie al Bataclan. Il suo «non avrete il mio odio» comparso su Facebook e rivolto ai terroristi è stato ripreso da tutti i media, che lo hanno di fatto strumentalizzato, quasi a baluardo della nostra supremazia culturale. Quella di Leiris non è affatto una frase banale ma è intima e mal si presta a una sfida tra la ragione illuminista e la fede cieca e irrazionale. Non poteva restare intima? Libertà è anche quella che consente a ognuno di noi di trovare le modalità che più gli sono proprie per sopravvivere alla tragedia, allo strappo, alla perdita. La libertà è forse realmente tale se sa accompagnarsi a una giusta dose di disincanto, utile a farci scorgere quegli stessi limiti che talvolta si celano in essa.