Felici per decreto?
23 settembre 2015
Rubrica «Finestra aperta» della trasmissione di Radiouno «Culto evangelico» curata dalla Fcei, andata in onda domenica 20 settembre
Ricordo che qualche tempo fa in un negozio di articoli per la casa chiesi al commesso alcune informazioni, ma mi accorsi subito del suo malumore. Non fu mancanza di educazione ma percepii il suo fastidio e presto decisi di proseguire altrove la mia ricerca. D’altra parte a chi di noi non è accaduta anche l’esperienza opposta, casi in cui la cordialità e il sorriso del commesso o della commessa, hanno avuto un ruolo determinante nella decisione di acquistare qualcosa?
Tutto ciò è già da molto tempo oggetto di ricerca da parte di sociologi e psicologi del lavoro che indagano appunto sul binomio felicità e produttività dei lavoratori. Se questo da una parte ha generato iniziative di alcune aziende di favorire un buon clima e una migliore socializzazione tra i dipendenti, nella maggior parte dei casi questo sforzo si è dimostrato velleitario e perfino irritante. Se il lavoro si precarizza, e i diritti dei dipendenti diminuiscono, se si lavora anche di domenica e si è sottoposti a ritmi di superlavoro, come si può credibilmente sfoderare sorrisi per i clienti?
La Costituzione degli Stati Uniti, come sappiamo, sostiene che la ricerca alla felicità sia un diritto inalienabile della persona. Ma proprio perché si tratta di un diritto alla ricerca della felicità, essa non può essere imposta da necessità esterne legate al profitto. Tuttavia se una persona si rende conto che il suo cattivo umore potrebbe costargli il posto di lavoro l’unica cosa che potrà fare sarà fingere. Fingere di essere felice, fingere di essere di buonumore, fingere di essere motivato verso ciò che propone. Fingere dalla mattina alla sera. Si può forse immaginare una società più triste di questa? Una società in cui l’unica parvenza di felicità è imposta da esigenze economiche? E poi questa felicità plastificata sarà mai convincente?
Eppure c’è chi testimonia che ci sono stati casi nel passato, ma senz’altro ce ne saranno anche oggi, in cui alcune aziende sono riuscite a non rendere l’equazione felicità e produttività una pretesa irrealistica, e a questo riguardo si cita spesso il caso di Adriano Olivetti, negli stabilimenti di Ivrea e di Pozzuoli. La verità è che questo traguardo davvero ambizioso può essere perseguito solo promuovendo una cultura del lavoro fondata sulla stabilità e sulla solidarietà e un’organizzazione aziendale attenta alla democrazia e alla partecipazione dei lavoratori.
Ultima breve annotazione: quanto sorridiamo nelle nostre chiese? Ci chiediamo se possiamo essere testimoni convincenti della «Buona notizia», se siamo tristi e lamentosi? E i nostri sorrisi della domenica mattina sono sempre espressioni genuine della nostra gioia? Io sono convinto che una scelta di reciproca accoglienza originata dalla profonda convinzione di essere tutti amati e perdonati da Dio possa creare in noi e fra noi una genuina e contagiosa allegria. Quel tipo di gioia di cui l’apostolo Paolo testimoniava pur scrivendo da un carcere e alla quale invitava la comunità scrivendo: «Rallegratevi nel Signore! Ve lo dico di nuovo: Rallegratevi!». Il segreto della sua gioia è forse da cercarsi in queste parole: «Ho imparato ad essere saziato e ad avere fame, ad essere nell’abbondanza e nell’indigenza. Io posso ogni cosa in Colui che mi fortifica».