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Il pulpito di piazza Cavour

Pubblicato sul numero 31/2014 di Riforma settimanale

La chiesa valdese di piazza Cavour conserva al suo interno molti beni che sono ritenuti patrimonio collettivo della comunità valdese ma anche della città di Roma: le vetrate e la decorazione parietale di Paolo Paschetto, l’organo, i candelabri in ferro battuto, la vasca battesimale, solo per citarne alcuni.

Tra questi vi è anche il maestoso pulpito in legno intarsiato frutto della maestria di importanti ebanisti, i Corsini. Lo scultore Tito era un importante intarsiatore di Siena di cui si può ricordare, tra le numerose opere, la decorazione delle porte del Castello di Torre Alfina ad Acquapendente. La ditta Corsini, composta dai fratelli Tito e Giuseppe, viene incaricata dal presidente del Comitato di Evangelizzazione, Arturo Muston, della realizzazione e messa in opera del pulpito e del tavolo per la Santa Cena nel dicembre 1912. Si conservano ancora alcune lettere che testimoniano gli accordi presi: «si tratta di un grande pulpito in stile gotico romanico conforme al disegno approvato dal Presidente e dall’architetto Bonci con osservazioni ed esemplificazioni concordate». L’opera è stata eseguita in legno di noce e castagno e il prezzo pattuito per l’intera realizzazione è stato di lire 5000.

Il pulpito, con ballatoio, doveva avere una doppia scala di accesso laterale, così come si vede in un disegno che raffigura una prima proposta di sistemazione dell’abside. Ma le due rampe di scale, per decisione di Muston e dello stesso Bonci, sono state sostituite da una sola scala posta dietro il pulpito, forse per dare maggiore respiro all’abside e consentire maggiore visibilità all’organo.

La partecipazione di Bonci è confermata da vari documenti e lettere e sembra che l’opera sia stata realizzata proprio su suo disegno; lo stesso Corsini afferma, infatti, di aver eseguito tutte le richieste e le variazioni dopo averle concordate con l’architetto. L’installazione dovette subire dei ritardi ma si pensa che sia comunque avvenuta intorno al giugno del 1913. Alla realizzazione partecipa anche Paschetto, che nel 1912 scrive a Muston per inviargli il disegno del pannello centrale del pulpito dove compare il monogramma cristiano con l’alfa e l’omega a cui lo scultore apporrà poi intorno un festone di ulivo e vite «per arricchirlo e dargli carattere secondo lo stile del pulpito».

Il pulpito appare oggi con le stesse fattezze dell’epoca. Si tratta di un alto basamento a pianta rettangolare su cui poggia il ballatoio costituito da tre elementi di cui quello centrale, un balcone a pianta poligonale, è chiuso da un parapetto e suddiviso in riquadri. All’interno dei riquadri sono stati scolpiti in bassorilievo a intarsio il Cristogramma di Paschetto inserito in una corona, mentre ai lati quattro medaglioni con la raffigurazione di Calvino, Lutero, Savonarola e Arnaldo da Brescia riconosciuti come testimoni dell’Evangelo e dell’esigenza di un rinnovamento della chiesa prima della Riforma protestante. Originariamente, nella parte inferiore del ballatoio, il parapetto del pulpito era decorato con un festone floreale intervallato da elementi poligonali con una croce all’interno molto simile alle stesse decorazioni in rilievo presenti sul tavolo della Santa Cena. Nel 1931 questa fascia decorativa fu tolta per abbassare il pulpito.

Come si è detto, il pulpito è posto a conclusione della navata centrale, davanti all’abside. La sua posizione, sopraelevata rispetto alle panche, risponde bene alla funzione di luogo di predicazione dove le parole del pastore possono giungere a tutti senza bisogno di amplificazione.

L’abside, per la sua ampiezza e altezza, accoglie, quasi avvolgendole, le canne dell’organo e la sottostante parete in legno, costituendo così una perfetta quinta a cui il pulpito può appoggiarsi. E il pulpito, in perfetto equilibrio con l’abside e con l’organo, si inserisce in questo quadro creando, con la decorazione di Paschetto, un’immagine maestosa e imponente degna della predicazione della Parola di Dio.

 

Che cosa intendiamo per patrimonio culturale (a cura di Daniele Jalla)

Il «patrimonio culturale», secondo il Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004, «è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici»: due classi di beni di cui il Codice propone una definizione, un po’ tecnica, ma a cui è bene rifarsi per chiarire di che cosa stiamo parlando:
«Sono beni culturali le cose immobili e mobili che (…) presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà. Sono beni paesaggistici gli immobili e le aree costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge».
Al di là della descrizione che ne dà la normativa, possiamo affermare che esistono dei beni – materiali e immateriali – cui attribuiamo un valore particolare, al di là del valore d’uso (che per lo più hanno perso) e del valore di scambio (che invece mantengono, alto o basso che sia) che hanno. È un valore simbolico che ci spinge a considerare certi beni come cose «preziose» da proteggere, conservare e trasmettere alle generazioni future.
Nell’esperienza più comune sono quei beni che quando non servono più, non buttiamo via, ma riponiamo in soffitta o esponiamo nelle nostre case per ragioni affettive, estetiche, di storia familiare o anche solo come testimonianza del passato. Ma sono anche quei beni che, fuori dalle mura domestiche, ammiriamo intorno a noi o che ci spingono a visitare un luogo o un museo.
È una classe di beni dai confini incerti perché tutto può essere considerato in un certo senso patrimonio in quanto «testimonianza di civiltà», dal Colosseo alla vecchia casa di montagna, dalla Gioconda di Leonardo alla fotografia dei bisnonni, dal David di Donatello al Monumento ai caduti.
Se tutto può diventare patrimonio per ciascuno di noi, la legge si preoccupa di individuare all’interno dell’infinito insieme dei beni potenzialmente culturali quelli che rivestono un interesse generale e che meritano di essere sottoposti a una speciale tutela.