L’arte delle levatrici, aperta alle possibilità di Dio
20 agosto 2014
Seconda di una serie di quattro meditazioni.
La prima si trova qui
Sono passati troppi anni da quando l’Egitto era stato luogo di rifugio dei Patriarchi. Il nuovo faraone ha rimosso la memoria del benefattore Giuseppe, mentre l’emergenza impone nuove misure restrittive. I tiranni consolidano il potere isolando come nemici del bene comune una minoranza numerosa e relativamente debole di recente acquisizione o da sempre presente sul territorio.
La paura degli altri si dimostra un’efficace sorgente di unità: come la religione, unisce le persone, ma alla fine frantuma l’anima della società distruggendone i membri: a lungo andare non è una strategia sostenibile perché mina alle radici umane della coesione nazionale. Il regime oppressivo del faraone, che esprime l’armonia religiosa e scientifica dell’ordine sociale, in realtà incarna le forze primordiali del caos che minacciano di distruggere la vita e le promesse di benedizione. Il grido di soccorso dei figli d’Israele, non ancora castigati per le future infedeltà, è assente, quasi per dire che Dio risponde al bisogno umano inespresso, la sua misericordia non deve essere sollecitata dalla supplica, è gratuita, proattiva, nella trama è Dio stesso a soffrire. Bisogna essere tra i dominati per sperimentare sulla propria pelle la paura sistemica, emanata dalla struttura sociale coesa. Abbiamo udito storie che raccontano dell’orrore di chi, svegliandosi dalla normalità quotidiana, si vede progressivamente tolta la dignità. Gli ebrei, condannati ai lavori forzati, continuano a moltiplicarsi e vengono ridotti in schiavitù. Cinque volte si fa riferimento al duro «servizio» (‘aboda) d’Israele, anticipando per contrasto l’uso del verbo (‘abad) che indicherà il servizio di Dio nella libertà.
La paura non caratterizza solo gli Israeliti. Mantenere una cultura della paura dall’altra parte del muro per poter opprimere un gruppo comporta che anche gli oppressori abbiano paura – di attentati e rivolte – ma soprattutto di perdere il potere, perché si rendono conto di quanto sia facile che venga tolta la propria dignità, come già successo agli oppressi.
Ma ci fu chi, tra egizi ed ebrei, spezzò nel vissuto quotidiano il ciclo del terrore. Si tratta, come spesso nella storia recente, di donne, che creano modelli di sostegno alla vita per la società e la chiesa, infrangendo l’incantesimo della paura. Anche le nostre comunità possono incamminarsi controcorrente verso la vita abbondante a cui ci chiama Cristo. L’Esodo narra di una vocazione dall’oppressione alla promessa di vita, dall’opprimente opulenza del Nilo alla libertà magra del deserto.
Il racconto presenta il pericolo di dividere le persone tra i «loro» e i «noi», che porta alla generalizzazione e disumanizzazione dell’altro. Paura e sospetto spingono all’oppressione. L’ironia del testo fa da preludio all’imminente liberazione: l’ignoranza e il pregiudizio che derivano da queste divisioni vengono sfruttate dal faraone per le sue mire di controllo, ma anche dalle ostetriche ebree, che come stratagemma si appellano ai pregiudizi consolidati, mettendo in scacco il re di tutto l’Egitto, che avendo collocato le straniere su un livello animale, crede alla storiella dei loro parti. L’intera comunità egizia viene messa a confronto con due ostetriche, in uno scontro impari, dove il faraone, anonimo, deve interloquire con due ebree, per di più con un nome. Il successivo piano genocida conferma che il re non considera questo flusso di popolo stanziato pienamente umano. In parte grazie ai suoi sforzi, accade quanto cercava di scongiurare: i tentativi di regolamentarne gli ingressi (le nascite) portano invece a una crescita esponenziale. Il tentativo di impedirne la fuga (‘alah) spingerà Dio a incaricare Mosè di portarli fuori (‘alah) dal luogo di detenzione. L’intento di Faraone di controllare la dinamica demografica limitando il tasso di natalità sprona le donne all’azione. Questi antichi immigrati sono odiati anche se necessari al sistema produttivo e assistenziale.
Dov’è Dio in un racconto di odio, oppressione, morte? Se ne accenna solo al v. 17, dove è specificato che le levatrici temettero Dio. La storia dell’oppressione è ormai da tempo avviata. Dio non interviene fino al v. 20, ma rimane sullo sfondo, mentre aumenta lo sfruttamento, dove si nasconde l’amara ironia dell’azione divina: più gli israeliti si moltiplicano secondo la promessa ad Abramo, e più il faraone li schiaccia. A differenza dei capitoli successivi, qui Dio si introduce in modi più sottili e meno intrusivi. Il Redentore della propria creazione si sta rimboccando le maniche per una lotta per la benedizione e la vita, per liberare il popolo dal caos dell’oppressione, ma lo fa in parallelo con la sapienza creativa di chi agisce secondo un imperativo etico e non secondo i decreti e perciò «teme Dio».
L’azione divina nella natura non è arbitraria, si allinea con l’intervento di levatrici, principesse, madri e sorelle, intrecciandosi con la disubbidienza civile e creativa umana. Dio prepara un futuro aperto, che attende la nostra azione che a sua volta influirà sulle sue opportunità, come nei gesti e parole di agenti che si contrappongono alla psicologia dell’odio e della paura che ispirano le misure di sicurezza. La loro opera collettiva, anche quando non motivata dalla fede, lancia una sfida non violenta ai confini ormai sfumati, tra «noi» e «loro», tra ebreo ed egizio, tra dominato e dominante. Mosè prima di scendere in campo crescerà come figlio di due mondi. La comunicazione di base tra campi opposti permette all’oppressore di sentire il dolore dell’oppresso.
Fino a che punto le nostre comunità rischiano di assumere il ruolo di Faraone, nel tentativo di prendere misure per preservarsi dagli estranei sempre in aumento? Si rallegrano per il compito maieutico delle ostetriche rivoluzionarie che promuovono la vita e il culto nella diversità? C’è qualche figlia di Faraone disposta a usare gli agganci al potere per proteggere i piccoli minacciati di espulsione? Dio entra nelle vicende di alcune donne per le quali vita e dignità umana non sono negoziabili, sceglie di schierarsi con gli oppressi, buoni o cattivi che siano. Fa sua la loro disperazione, non è al di sopra delle parti.
Nella coscienza spirituale e psicologica della gente oppressa che vive in un ghetto circondato da una società bianca, il signore e salvatore assomiglia agli oppressori. Ma il colore di Dio varia a seconda del colore degli oppressi, perché riconoscano il proprio valore inalienabile. La cultura dominante ha distorto l’Evangelo imponendo una comprensione a priori bianca e apparentemente neutrale di Dio espressa nell’arte, nel linguaggio, nelle metafore e attribuendo al motore immobile, faraone di turno, un ruolo paterno che priva gli oppressi di una propria arte, di un linguaggio partorito per raccontare la redenzione di Dio in un Cristo nero. Dove, se non nelle comunità del crocifisso risorto, sarà possibile agli oppressi riprendersi i colori, ritmi, sapori, insieme alla sofferenza, passione e gioia di questo Dio che trae il suo popolo dall’Egitto?