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Libertà di informazione: Italia al 73° posto

Intervista con Beppe Giulietti, portavoce dell'associazione Articolo 21

Negli ultimi quattro anni, in Italia, almeno venti giornalisti sono stati condannati al carcere per il reato di diffamazione. Due hanno cominciato a scontare la pena poi sono tornati liberi. Complessivamente i magistrati hanno inflitto oltre 16 anni di detenzione. Quella licenziata al Senato doveva essere una riforma della legge sulla stampa che, eliminando la pena del carcere per i giornalisti, liberava l’informazione dal rischio di sanzioni sproporzionate e a tutela dei diritti fondamentali di cronaca e di critica: invece il testo rischia di ottenere l’effetto opposto, rivelandosi come un maldestro tentativo di limitare la libertà d’espressione anche sul web. Abbiamo rivolto alcune domande a Giuseppe Giulietti, giornalista, già deputato e portavoce di Articolo 21: associazione, nata per tutelare la libertà di espressione e di informazione, che opera attraverso il sito online (www.articolo21.org).

Il nostro paese, in tema di libertà d’informazione in pochi anni è sceso di ventiquattro posizioni arrivando al 73° posto nell’annuale classifica mondiale resa nota da Reporter sans frontiere (Rfs). Com’è possibile?

«Siamo scesi così in basso perché non abbiamo mai risposto alle segnalazioni arrivate dalle istituzioni europee in relazione al conflitto di interessi, alle normative antitrust, all'autonomia del servizio pubblico, alle continue minacce contro i cronisti. Ad oggi manca una legge sul conflitto di interessi, i vertici della Rai continuano ad essere nominati dal governo e dai partiti, non è mai stata modificata la norma che prevede il carcere per i cronisti condannati per eventuali diffamazioni. Queste mancate risposte condannano l'Italia ad occupare la mediocre posizione che occupa in tutti i rapporti internazionali e non solo in quello stilato da Rsf».

E’ approdato alla Camera il testo di legge sulla diffamazione. Molti giornalisti ma anche intellettuali ed esponenti della società civile si sono detti contrari al testo. Un sito: nodiffamazione.it, sta raccogliendone il dissenso. Qual è il suo parere?

«Il testo di legge non risponde alle attese. Le multe restano troppo elevate, i meccanismi di rettifica sono astrusi e di difficile applicazione e riguarderebbero anche siti online e blogger costretti a pubblicare la rettifica entro 48 ore con pene pecuniarie altissime, ma soprattutto manca una norma che scoraggi davvero l'uso delle cosiddette “querele temerarie”, diventate ormai uno strumento di intimidazione preventiva. Il relatore, Walter Verini, sta compiendo un positivo sforzo per emendare il testo, ma ho la netta sensazione che i risultati saranno parziali e che il combinato disposto tra legge sulla diffamazione e nuove norme sulle intercettazioni produrrà nuovi ostacoli al libero esercizio del diritto di cronaca con una conseguente riduzione del diritto della comunità ad essere informata in modo corretto e trasparente. Ben vengano dunque tutte le iniziative capaci di richiamare l’attenzione collettiva su questo tema».

Un altro tema spinoso, in materia di libertà di stampa, sono proprio le “querele temerarie”. Di cosa si tratta?

«Le “Querele temerarie” sono quelle che vengono scagliate in modo provocatorio, continuato e ripetuto contro quei cronisti che indagano, in modo particolare, sulle mafie e il malaffare. Il querelante non si propone di tutelare la sua immagine, ma di bloccare le inchieste, di far prevalere la paura, di indurre editori e cronisti all'autocensura. Un ricatto ancor più grave quando viene esercitato contro cronisti che hanno magari un contratto precario e, dunque sono più esposti al ricatto e alla intimidazione. Per questo sarebbe opportuno introdurre una norma capace di scoraggiare i “Temerari” costringendoli, in caso di sconfitta processuale, al pagamento di una percentuale delle folli richieste di risarcimento da loro avanzate. Nel testo attuale questa norma manca, ed è davvero grave».

Articolo 21 da sempre porta avanti la battaglia per risolvere il conflitto di interessi.

«Il conflitto di interessi, inteso come concentrazione nelle stesse mani del potere politico, degli affari e dei media, andava risolto all’origine. Gli effetti nefasti prodotti hanno da tempo inquinato la società nei suoi comportamenti pubblici e privati. Ora il governo ha annunciato l’intenzione di procedere alla approvazione di una legge. Vedremo se, come, e quando, sarà definita la legge, se sarà una proposta rigorosa e definitiva, non saremo certo noi di Articolo 21 a metterci di traverso. Quello che chiedevamo ieri, non può che valere anche oggi».

Ieri si è tenuta a Roma l’annuale Assemblea della vostra associazione dove avete premiato quattro giornalisti. Quali sono le attività che Articolo 21 intende intraprendere per il futuro?

«Intanto continuare ad essere un’isola nella quale le differenze si incontrano e non si scontrano. Alle riunioni di Articolo 21 partecipano esponenti politici di diversi schieramenti, intellettuali, artisti, credenti e non credenti. Dalla rivista San Francesco alla rivista Confronti, dalle associazioni cattoliche alla Federazione delle chiese evangeliche in Italia. Due saranno le grandi campagne: una contro i bavagli e gli ostacoli che ancora rendono difficoltoso l’esercizio del diritto di cronaca e l’altra per arrivare ad una legge di riforma della Rai che la liberi dall’asfissiante controllo dei governo e dei partiti. Abbiamo premiato Sandro Ruotolo, Federica Angeli, Chiara Cazzaniga e Enzo Palmesano, giornalisti che hanno in comune il desiderio di illuminare le oscurità e di contrastare il malaffare. Il modo migliore per sostenerli è quello di riprendere le loro denunce e di dare voce alle loro inchieste. Quella che noi amiamo chiamare: la scorta mediatica».

Nella foto Beppe Giulietti

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