La “cultura” della corruzione
21 maggio 2015
Per contrastare una mentalità mafiosa, occorre puntare sulla formazione. L’intervista a Giuseppe La Pietra
Il 7 maggio è stata approvata una delibera che blocca l’indennità per gli ex parlamentari con condanne superiori a due anni per reati gravi, come mafia e corruzione. Sulla corruzione è intervenuto anche papa Francesco che, all’apertura dell’assemblea della Cei, ha invitato i vescovi a non essere timidi nel denunciare la «mentalità di corruzione pubblica e privata» alla quale assistono. Commentiamo queste notizie con Giuseppe La Pietra, del gruppo di lavoro sulle carceri della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia.
Come ha letto le parole sulla corruzione dirette ai vescovi?
«La notizia non mi ha colpito particolarmente, l’ho vista opportuna e significativa da parte del papa. Credo che abbia visto all’interno dello Stato vaticano, così come in Italia, qualcosa che non va sotto il profilo della corruzione e che da abbia reagito. Da quando Bergoglio è diventato papa si è trovato all’interno della chiesa scandali come quello dello Ior e quello di Carlo Maria Viganò, così come altri segnali inquietanti che arrivavano dal Vaticano e per il suo ruolo di autorità morale ha quindi deciso di intervenire. Leggo questo messaggio come indirizzato sicuramente a tutti i fedeli, ma allo stesso tempo rivolto anche all’interno dello Stato del Vaticano».
Il costo della corruzione per l’Italia è stimato intorno ai 60 miliardi, ma alcuni dicono molti di più: cosa ne pensa?
«La questione non è enfatizzare o minimizzare questo dato, ma notare che la corruzione non è un ente astratto che non tocca la vita dei cittadini e questa cifra ne è un esempio. Si tratta di un furto che viene fatto nei confronti delle fasce deboli della popolazione, soprattutto. La corruzione in qualche modo esprime una cultura mafiosa del paese, e non solo in qualche regione del sud, come qualcuno ancora pensa. Se ai 60 miliardi l’anno di corruzione uniamo i 120 che vengono dal patrimonio delle mafie, la cifra è ancora meno irrisoria. Significa che ci sono degli strumenti inefficaci per il contrasto alla corruzione e alla mafia. Essendo una questione culturale, occorre partire proprio dalle scuole, e dalla formazione nei contesti educativi, dal mondo dell’associazionismo al mondo delle chiese».
Pensa che combattere la corruzione sia più difficile che combattere le mafie?
«Quando parlo di processo culturale penso a tutto quello che c’è stato intorno a Mafia Capitale, che ha sottolineato come soldi messi a disposizione dei poveri e dei migranti e rubati allo Stato vengano utilizzati per tornaconti personali e per innescare un circuito di favoritismi. Questo è espressione della cultura mafiosa».
Ci sono anche esempi positivi, come la campagna “Riparte il Futuro” di Libera.
«Sì. La campagna ha l’obiettivo di essere incisiva nei cittadini e nei politici, e nelle ultime elezioni aveva chiesto la trasparenza ai politici coinvolti. Continua a farlo, in vista delle amministrative di fine maggio 2015, pubblicando le informazioni dei politici che lo permettono, per far venire a galla eventuali conflitti di interesse e così via: non sono molti quelli che aderiscono, e dovremmo chiederci il perché. Da una parte quindi ci sono risultati positivi come lo stop del vitalizio ai condannati, ma dall’altra chi si impegna a governare la cosa pubblica resiste alla trasparenza. A proposito di Libera, anche la confisca dei beni alle mafie e il loro riutilizzo sociale è un potente strumento contro la corruzione e dà un contributo significativo a un processo culturale virtuoso».