Non ci si sposa per divorziare, ma per essere felici
24 aprile 2015
Ribet sul divorzio breve: «Credo che il compito delle chiese non sia quello di difendere un concetto astratto di famiglia, ma di aiutare le persone ad essere più famiglia»
La Camera ha approvato in via definitiva, con 398 sì, 28 no e 6 astenuti, la riforma delle norme sul divorzio che modifica la legge n. 898 del 1970: il testo era in discussione in Parlamento da più di dieci anni. La riforma riduce il tempo di attesa tra separazione e divorzio da tre a un anno; fino a sei mesi se il divorzio tra i coniugi è consensuale. “Un attacco alla famiglia” secondo il mondo cattolico, molto critico per la superficialità con cui si affronterebbe la separazione. Ridurre la conflittualità, ad esempio nel caso di separazione non consensuale, sarebbe un vantaggio soprattutto per i figli delle coppie che divorziano. Abbiamo commentato la notizia con Paolo Ribet, pastore valdese e coordinatore della commissione sui nuovi modelli di famiglia della Tavola Valdese.
Il divorzio breve rende più fragile la famiglia?
«Dalla mia esperienza e dalle idee che mi sono fatto, credo che la scelta sia stata giusta. Se con il divorzio consensuale potremmo dire che va tutto bene, sappiamo che se non è così, possono esserci delle spaccature, a volte odi e rancori profondi tra i coniugi, di cui spesso i figli sono le vittime o sono usati come arma di un genitore contro l’altro. Diminuire il tempo necessario al divorzio, ovvero alla definizione chiara della situazione, penso sia solo un fatto positivo. Non so se questa legge renda più fragile la famiglia, ma non credo: quando si arriva a un divorzio significa che di fatto la famiglia non esiste più».
Il mondo cattolico è insoddisfatto: tre anni - è stato detto - è un tempo adeguato per tornare sui propri passi
«Sono sempre perplesso quando una maggioranza del mondo scientifico, sociologi o psicologi esprime una teoria, chi non è favorevole tira fuori sempre un’altra versione contraria altrettanto scientifica. Anche la psicologia si basa molto sull’esperienza di chi la pratica, per quello che leggo sui giornali, solo l’1% delle coppie che hanno deciso per il divorzio torna sulle proprie decisioni. La mia sensazione è che da parte cattolica non ci sia il senso delle cose: ci troviamo di fronte a delle famiglie che si spaccano. Se è vero che un divorzio è un fallimento di un progetto, perché non ci si sposa per divorziare, ma per essere felici insieme, può anche segnare un nuovo inizio: mi è capitato di vedere persone divorziate che al secondo matrimonio sono più mature e attente proprio perché hanno vissuto quella esperienza. Il divorzio non è un attacco alla famiglia, semmai è una conseguenza dei mille attacchi che la famiglia riceve. Credo che il dibattito vada affrontato senza ideologia e con più attenzione alle persone. Credo che il compito delle chiese non sia quello di difendere un concetto astratto di famiglia, ma aiutare le persone ad essere più famiglia, qualunque tipo di famiglia sia. Ci sono voluti 10 anni per arrivare al divorzio breve, ma vista l’ampia votazione, potremmo dire che è giusto così».
Le questioni che toccano aspetti etico-religiosi sono discusse con molta lentezza in Italia.
«Ho l’impressione che spesso ci sia la paura di discutere questi temi perché c’è la chiesa cattolica che si oppone, e alla quale nessuno vuole andare contro. Io dico che ci vuole il coraggio di mettere il Parlamento di fronte alle sue responsabilità in modo che prenda le decisioni. Chi vuole dire di no rispetto ai diritti delle persone deve avere il coraggio di venire allo scoperto. Mentre invece insabbiando tutto nessuno si espone e non si va mai avanti. Le motivazioni spesso sono parascientifiche, come dicevamo inizialmente: qualche giorno fa si diceva che l’omosessualità è un disagio psichico: ma ci sono anche scienziati che dicono che l’inquinamento non esiste e così via. Un atteggiamento che dovremmo riuscire a vincere, e credo che il Parlamento dovrebbe mettere in agenda veri diritti civili, come ha fatto questa volta».