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Un canale umanitario è possibile: la proposta della Federazione delle chiese evangeliche e Sant'Egidio

Nel giorno del Consiglio europeo straordinario sull'emergenza sbarchi pubblichiamo l'intervista a Paolo Naso, coordinatore della Commissione studi della Fcei, sulla proposta di apertura di una canale umanitario

Dopo l’ennesima tragedia nel Mediterraneo con più di mille morti in una settimana, molte organizzazioni, chiese, associazioni o gruppi di semplici cittadini hanno chiesto l’apertura di corridoi umanitari che permettano di evitare le traversate della morte. L'Italia da sola non può continuare a gestire un'emergenza, che ormai è strutturale, e la politica europea è lenta nelle proprie decisioni: la situazione richiede pertanto scelte urgenti e mirate. Oltre ai morti sempre più numerosi, occorre considerare il miglioramento delle condizioni meteo, che favorirà nuove traversate e nuovi arrivi sulle coste europee. La Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, insieme alla Comunità di Sant’Egidio, ha deciso di avviare  una sperimentazione, largamente finanziata attraverso l'Otto per mille valdese, per aprire un canale umanitario che permetta a soggetti vulnerabili – persone malate, ferite, che fuggono da guerre e persecuzioni, donne e minori non accompagnati - di ottenere un visto umanitario  per raggiungere l’Italia in condizioni di sicurezza. La prima sperimentazione di questo modello d’intervento sarà in Marocco, nelle città di Rabat e Tangeri.

Paolo Naso, coordinatore della Commissione studi della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, ci ha parlato dei dettagli del progetto.

In cosa consiste questo progetto?

«Abbiamo cercato una maglia, per quanto stretta, all’interno delle norme esistenti. Tutti noi auspichiamo un cambiamento delle norme, soprattutto in materia di visti e di diritto d’asilo. Le leggi europee prevedono, ad esempio, che la domanda d’asilo da parte di un rifugiato debba essere avanzata nel territorio di uno dei paesi dell’Ue. Ma in questo modo il richiedente è spesso costretto a rischiare la vita per arrivarci. Oppure – regolamento di Dublino – si prevede che il richiedente asilo debba rimanere nello Stato in cui ha fatto richiesta di riconoscimento durante il lungo iter della procedura, senza poter viaggiare in altri paesi europei nei quali potrebbe avere appoggi o parenti. La questione è molto seria per l’Italia perché, più esposta di altri Paesi europei alle migrazioni mediterranee, finisce per “trattenere” dei richiedenti asilo che in realtà non hanno alcun interesse a restare nel territorio nazionale. Queste e altre strettoie normative vanno cambiate. Ma nel frattempo abbiamo un’emergenza umanitaria di fronte alla quale non possiamo più chiudere gli occhi, come l’Europa sta drammaticamente e irresponsabilmente facendo in questi mesi.

A partire da questo ragionamento, abbiamo cercato una soluzione, anche parziale ma immediata e tempestiva. Riteniamo di averla trovata nella norma che consente a uno o più paesi dell’Ue di assumersi la responsabilità di rilasciare presso le proprie sedi consolari  dei visti per la “protezione umanitaria” di soggetti vulnerabili. Non è ancora il  riconoscimento dello status di rifugiato; è un attestato che ha un peso giuridico minore ma che consentirebbe alle persone di viaggiare in sicurezza nel Mediterraneo, evitando così il ricatto e la violenza degli scafisti e ovviamente il rischio di traversate con mezzi di fortuna.

La Fcei la Comunità di San’Egidio intendono quindi aprire in Marocco un desk umanitario che prema sulle autorità italiane per la concessione di visti per ragioni di protezione che consentano a un numero di persone limitato di raggiungere l’Italia in modo sicuro. Si tratta di una “buona pratica” che viene testata dall’Italia, ma se altri paesi che hanno una politica e una tradizione di grande accoglienza come la Svezia o la Germania seguissero questo esempio avremmo uno strumento sostenibile per gestire importanti numeri di migranti verso l’Europa nel rispetto e nella tutela dei diritti umani».

Nella pratica significa un rafforzamento delle ambasciate all’estero? Come è sostenibile?

«L’esperienza che vogliamo realizzare a partire dal Marocco, in cui abbiamo già svolto la prima missione operativa, tende a costituire un ufficio che si possa interfacciare con le sedi consolari, che ovviamente non possono essere prese d’assalto da migliaia di persone. L’esperienza ci dice che il volontariato ha questa capacità di mediazione culturale, di informazione, ma anche di sensibilizzazione dei migranti. Occorrerà spiegare, infatti, che la finestra che cerchiamo di creare funzionerà per le persone che hanno effettivamente delle condizioni di fragilità e precarietà mentre non si adatta a coloro che hanno un classico progetto migratorio teso a cercare lavoro all’estero. Questo progetto è autofinanziato ma se e quando il modello fosse adottato in Europa sarà necessario reperire risorse adeguate. Il tema di oggi è il raddoppio degli investimenti per l’operazione Triton, una misura del tutto inutile che si limita a monitorare il canale di Sicilia e dissuadere gli scafisti. Ma è un dispositivo fragile ed eccezionalmente oneroso. Con i “canali umanitari” si spenderebbero meno soldi e si potrebbero gestire i flussi secondo criteri all’altezza della tradizione umanitaria dell’Ue».

La risposta politica sembra confusa in questo momento di emergenza.

«Sì, e in questo le chiese protestanti, insieme alla Comunità di Sant’Egidio intendono dare una prova di rigore e di serietà, con proposte immediatamente praticabili e sostenibili in questo momento particolare. Abbiamo il dovere di sconfiggere l’iimpressione che si debba morire in mare o che addirittura le stragi siano positive perché scoraggiano altre partenze: è questa un'idea sciagurata e cinica, da contrastare radicalmente. Se restiamo in questa  logica ci schieriamo “dalla parte di Caino”, di chi uccide suo fratello e fa finta di non sapere che fine abbia fatto. Si tratta di invertire la tendenza. La politica è in ritardo e le chiese possono dare un contributo, non per sostituirsi ad essa ma per indicare una strada diversa che speriamo venga accolta dalle istituzioni italiane ed europee. Se così fosse, avremmo più argomenti per affrontare il tema più generale, ovvero la destabilizzazione della porzione di mondo che va dal Nord Africa al Medio Oriente e che arriva all’Africa Subsahariana: è il collasso economico e geopolitico di quest’area che determina flussi migratori così rilevanti. L’’emigrazione di massa non è la soluzione ma è il fenomeno che denuncia la gravità di una situazione che non si può ignorare».

La collaborazione ecumenica nel progetto è un segno importante.

«Sì, è un valore aggiunto. Per la parte evangelica si colloca all’interno del progetto Mediterranean Hope che, come noto, comprende l’Osservatorio a Lampedusa e la Casa delle culture – Centro di accoglienza di Scicli. In questo nuovo impegno per i “canali umanitari” la Fcei mette a disposizione trent’anni di esperienza sul campo, di sensibilità, di legami con l’Europa protestante e, auspichiamo, con il suo peso politico. La comunità di Sant’Egidio contribuisce con la sua eccezionale esperienza nel campo delle relazioni istituzionali e della mediazione internazionale. Due soggettività diverse che si completano a vicenda nel quadro di una fase ecumenica più viva rispetto ad altri periodi: la fede è anche profezia, capacità di guardare oltre e lontano. E noi sappiamo che, al di là di speculazioni e polemiche politiche, nel nostro futuro ci saranno i migranti: ma occorre che ci siano nella dignità di cui hanno pieno diritto».

Copertina: Foto di Francesco Piobbichi, Mediterranean Hope