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«Io vulisse avè l’agenda e’ Minà»…

Se n’è andato Gianni Minà. Dopo una breve malattia cardiaca, si è spento a 84 anni. Autore di storiche interviste ai grandi dello sport, della politica mondiale e del cinema. Un giornalista con la schiena dritta, di grande passione civile

Se n’è andato Gianni Minà. Dopo una breve malattia cardiaca, si è spento a 85 anni. Autore di storiche interviste ai grandi dello sport, della politica mondiale e del cinema. Un giornalista con la schiena dritta, di grande passione civile, che ha sempre contrastato le ingiustizie sociali… «Libero ironico, insofferente a bavagli e censure, spirito critico, capace di illuminare oscurità e oscurantismi, protagonista degli anni migliori del servizio pubblico», così ha scritto in un tweet il collega giornalista e già presidente della Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi), Giuseppe Giulietti.

Lo ricordiamo in questa intervista di Stefano Corradino (direttore di Articolo21.org) fatta a Gianni Minà qualche anno fa, nell’anniversario della scomparsa di un altro grande personaggio a cui lui era molto legato, Massimo Troisi.

«Io vulisse avè l’agenda e’ Minà». É uno degli sketch più memorabili di Massimo Troisi, ospite di Gianni Minà, in una delle sue sporadiche apparizioni televisive.

Minà lo invita a una puntata del programma Alta classe per festeggiare Pino Daniele, ma Troisi, che era attore decisamente fuori dagli schemi, non prepara niente sul cantautore napoletano e si lancia in un monologo sul conduttore.

Minà chiama tutti, pure Fidel Castro. «E ‘o bell’ è che tutti gli rispondono! Per esempio, volete sapere comm’ è arrivato a me? Ha preso l’agenda e alla “t”, dopo i fratelli Taviani, Little Tony, Toquino ce stava Troisi…»

Gianni Minà racconta questa gag ogni volta come se fosse avvenuta il giorno prima, accompagnandola con una risata contagiosa. Ne ha conosciute centinaia di personalità.

Del cinema e della tv, dello sport e della politica ma quello con Troisi, scomparso il 4 giugno 1994, è stato per lui un legame speciale.

L’intervista di Corradino a Minà

Ricordi la prima volta che lo hai conosciuto?

«É stato a “Blitz”. Frequentavo il produttore con cui lui lavorava, Mauro Berardi. Ed erano molto amici. Lui, Mauro e un tale Roberto, nato in una frazione di Castiglion Fiorentino…».

Benigni…

«Erano grandi amici. Tra loro non c’era solo una profonda stima professionale. Si volevano un bene dell’anima, tranne quando giocavano a risiko».

Come a risiko?

«Sì, a risiko, il gioco da tavola. Lo facevano spesso. E quando si sfidavano era una guerra. Si lanciavano di tutto! Quelle partite erano diventate un classico».

Entrambi vennero insieme da te in trasmissione, non una ma ben tre volte.

«Tre pomeriggi memorabili. Con Massimo andavamo a prendere Benigni direttamente a casa. Se non l’avessimo fatto Roberto avrebbe perso sicuramente l’aereo. Si presentava con un sacchettino di plastica. Dentro, le mutande di ricambio, i calzini e lo spazzolino con il dentifricio. Una sera arriviamo nell’hotel di Milano dove era il “quartiere generale” di Blitz. Roberto consegna la bustina al portiere e gli dice “porti pure il bagaglio nella mia stanza”. E a quel punto Massimo si sbellicava dalle risate!»

In trasmissione sfornava battute esilaranti.

«Parlando del film che aveva appena girato, “Pensavo fosse amore invece era un calesse” (io sbagliavo sempre a dire il titolo del suo film…) gli chiesi quale fosse per lui la donna ideale. E lui: “La donna ideale per me è la fidanzata di un altro. Così’ non ho problemi perché non devo darle per forza quello che le donne pretendono!”. Ancora oggi se ci penso non riesco a smettere di ridere».

Si preparava delle parti o improvvisava?

«Entrambe le cose. Un giorno volevo intervistarlo per la tv sulla festa dello scudetto del Napoli. Quando arrivai da lui mi dà un foglio di carta e mi dice: “Tu sì ‘nu giornalista indipendente e alternativo. Stavolta però non fare ‘o bravo giornalista. Devi farmi queste domande, come fanno i politici”. Si era preparato una gag esilarante sull’unico napoletano che non sapeva che il Napoli avesse vinto il campionato. E nella gag ripeteva tutte le banalità che ricorrono quando si parla di calcio. “Non bisogna dimenticare questo appassionato pubblico napoletano o un allenatore serio come Bianchi”. Allora io gli ripetevo: “Lo hanno già detto”. E lui incalzava: “Non bisogna dimenticare nemmeno le ferite di questa città”. E io: “Anche questo lo hanno già detto”. Andammo avanti su questa traccia fino a quando non gli ho ribadito che il Napoli aveva vinto lo scudetto. “Allora prima di andare a festeggiare per strada ricordatevi di chiudere l’acqua e il gas! Questo forse non l’hanno detto”. E scoppiamo entrambi a ridere».

Amava ridere e far ridere, era leggero ma di una leggerezza che non era superficialità, ma sottrazione di peso alle cose.

«Proprio così. Troisi aveva un senso forte di impegno civile che traspariva dalle sue battute. Giudicava il mondo in cui viveva con un’ironia sottile, ma pungente. Per questa ragione qualcuno gli dette del “comunista” e lui ci rideva su e diceva: “Ma che r’è quest’ comunismo?” Era profondo, mai banale. E questo infastidiva molto coloro che pensano che la tv debba essere per forza superficiale e che l’unico cinema che vale è quello di mercato…».

Eppure i suoi film avevano successo.

«Un grande successo. Benigni ammirava il fatto che in tutta Italia il dialetto di Massimo lo capissero tutti, anche nel nord. Sarà stato per lo sguardo, per la gestualità, per quel suo napoletano, molte volte perfino inventato. Era il dialetto di Troisi. Per lui il linguaggio era molto importante».

Non si è mai montato la testa

«Era un ragazzino. Quando arrivò al terzo film si sentiva come un dilettante. Con una semplicità immensa nei modi. Ed era molto intelligente, una delle persone più intelligenti che io abbia conosciuto. Aveva un passo diverso. E sono felice che lui mi abbia scelto per fare molto cose insieme in tv».

In tv non ci andava molto.

«La televisione consuma. Dopo che hai fatto tre volte la stessa cosa non puoi rifarla altrimenti rischi di diventare banale. E a Massimo non piaceva granché andare in televisione. Fece un paio di interviste con Baudo, le tre interviste insieme a Benigni da me a “Blitz” e poco altro. Voleva sentirsi “tutelato”. L’artista è fragile, lo ripeteva lui stesso. Ma i grandi artisti, se stanno in un contesto per loro sereno, ti danno anche l’anima. Così è stato per Massimo nelle mie trasmissioni».

Lo frequentavi anche al di fuori della televisione?

«Eravamo amici, ci vedevamo spesso. Per Natale andava al suo Paese, a San Giorgio a Cremano, ma dopo un paio di giorni “si scucciava” e a Santo Stefano tornava indietro. Veniva a casa mia e lì c’erano mia figlia adolescente e alcune compagne e compagni che giocavano a tombola. E lui e si metteva a giocare con loro. Voleva sempre tenere il tabellone e declamava ogni numero rifacendosi alla tradizione della smorfia napoletana: “77, e’ diavole; 8 a’ Maronna; 10 e’ fasule…”. Un’altra volta venne a casa mia all’una di notte e ci rimase fino all’alba. Stava con una famosissima attrice americana a cui era molto legato. Lui non aveva imparato l’inglese ma lei aveva imparato… il napoletano! Le chiedo “dove siete stati ieri” e lei: “Ieri me ne so ‘gghiuta…”».

L’ultimo film fu “Il Postino”. Era già molto provato dalla malattia eppure arrivò fino alla fine.

«Era rimasto folgorato dal libro di Skarmeta da cui era tratto il film. Voleva conoscere l’autore e lo aiutai a farlo. Era forse la storia che più di ogni altra aveva sentito il bisogno di interpretare. Così entrò nel personaggio fino in fondo. Una strepitosa prova d’attore».

Sono trascorsi tanti anni ma sembra ieri. I suoi film, le sue gag sono intramontabili.

«Massimo mi manca molto. Mi mancano le sue telefonate. Quando mi chiamava per comunicarmi la formazione della nazionale di calcio degli attori che si contrapponeva a quella dei cantanti. Ma guai a sfilargli il numero 10! Toccava sempre a lui. A lui e a Diego Maradona!».

Ciao Gianni! La redazione di Riforma.

E grazie a Stefano Corradino e ad Articolo 21.org per averci concesso di pubblicare quest’intervista.

Foto di Paolo Ranzani

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