«Mio Dio, perché mi hai abbandonato?»
20 dicembre 2022
Le ultime parole di Gesù nello studio che ne fecero i Padri della Chiesa
Il grido di abbandono di Gesù sulla croce (Mt 27, 46 e Sal 22, 2 oltre a testi correlati [Dt 21, 23; Gal 3, 13]) registra una attenzione particolare da parte dei Padri della Chiesa (II-V sec.) nel pieno di Concili e relative controversie dogmatiche cristologico-trinitarie, apologie e polemiche che vedono ortodossi, eterodossi ed eretici in scontri teologici. Il biblista ed esegeta francese Gérard Rossé ha condotto al riguardo una originale, profonda e acuta inchiesta sulla lettura dei Padri, ora in edizione italiana presso Città Nuova*.
L’indagine mette in luce le diversità interpretative con un approccio critico, nella consapevolezza «che i Padri dei primi secoli non potevano studiare la Bibbia con i metodi moderni dell’esegesi». Ne emergono, quindi, aspetti positivi e limiti. Del resto, il discorso è complesso: «Teologia e cristologia sono inseparabilmente legate, sono sottese da interrogativi di fondo: “Come capire che Dio può veramente essere uomo senza rompere il monoteismo e la trascendenza? Come possono coabitare nella stessa persona una natura umana e una natura divina?”». La questione riguarda, in definitiva, le due nature di Gesù Cristo. I Padri si servono, pertanto, degli “strumenti” a loro disposizione, vale a dire le categorie filosofiche del tempo che li portano a impiegare concetti quali quelli di sostanza, persona, natura…
Ciò comporta limiti attinenti alla interpretazione del testo biblico e all’utilizzo delle categorie culturali: le citazioni vengono “addomesticate” da parte e degli ortodossi e degli eretici che non tengono conto né del contesto storico né di quello letterario/narrativo; ciò vale anche per il grido di abbandono; in più, l’approccio ai Vangeli non è sotteso dalla “distinzione tra memoria e testimonianza di fede”: «tutto ciò che si legge nei Vangeli è storia, senza rendersi conto che questa “storia” è riletta e attualizzata alla luce della fede pasquale».
L’approccio alla Scrittura implica anche la questione relativa alla relazione tra Antico e Nuovo Testamento [si veda anche, in proposito, l’intervista a Eric Noffke sul numero 47 di Riforma, p. 3, ndr]. Con la rottura tra Chiesa e Sinagoga (anno 80) «diventa urgente per la cristianità non perdere le proprie radici»: «L’AT si fa profezia messianica»; per cui, la sua lettura da parte dei Padri è cristologica: tutto viene letto e compreso nella prospettiva dell’annuncio di un Messia crocifisso che viene risuscitato dal Dio di Israele – il che è uno scandalo per il giudeo: «Il cadavere appeso è maledetto da Dio» (Deut 21, 23). I Padri interpretano il Salmo 22 (v. 1) in chiave di profezia messianica «con l’intento di imparentare e inserire Gesù crocifisso nella schiera del giusto sofferente dei salmi di lamentazione e dei martiri uccisi per la loro fedeltà a Dio (Sap 2-5). Si tratta di un approccio tipologico alla Scrittura». Il che permetteva loro di «rendere accettabile “lo scandalo della croce” e poter annunciare come Messia un crocifisso che la stessa legge di Mosè dichiara maledetto da Dio».
La problematica cristologica va a implicare naturalmente anche il «mistero dell’Incarnazione». Il discorso, quindi, cade sul concetto della kenosi divina – cioè, dell’annichilimento di Cristo di cui parla l’inno cristologico prepaolino (Fil 2, 6-11). «Nella kenosi egli non rinuncia a essere ciò che egli è costitutivamente da tutta l’eternità, cioè Figlio, ma lo rivela al mondo vivendo umanamente da Figlio. Proprio così egli è in se stesso la vicinanza del Regno di Dio annunciato». Si perviene, così, «alla morte di Gesù interpretata dal grido di abbandono». Ciò conduce i Padri a porsi interrogativi teologici: «Come intendere infatti che Dio possa abbandonare Dio? O il Padre il Figlio incarnato? Come conciliare la natura umana e la natura divina nel Crocifisso?». «Gesù vive la sua morte come ha vissuto la sua vita: da Figlio». Quindi, quello che Gesù percorre «è inseparabilmente un cammino di fedeltà a se stesso, alla propria missione, alla propria identità personale»; ed Egli, da Crocifisso, vive l’abbandono quale silenzio di Dio.
La morte di Gesù in croce interpretata dal grido di abbandono, nell’indagine condotta da Rossé sui diciassette Padri tra i più importanti, non registra particolare attenzione. Lo si può dedurre, in generale, dai loro commentari al vangelo di Matteo e dalla loro comprensione di quello di Marco, considerato un suo riassunto, oltreché da trattati e commentari. La sentenza «Il cadavere appeso è maledetto da Dio» (Deut 21, 23) viene da loro interpretata come profezia messianica «e/o conferma [della] solidarietà di Gesù con la condizione umana da salvare»; e frequentemente vi ricorre la parola paolina «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, essendo divenuto lui stesso maledizione per noi, poiché è scritto: “Maledetto chiunque è appeso al legno”» (Gal 3, 13): «la maledizione [viene] identificata con lo stato di peccato dell’umanità».
Gérard Rossé conclude la propria rigorosa indagine tracciando un bilancio dal quale emerge il pensiero dei Padri in tutte le varie “sfaccettature” circa il grido di abbandono del Cristo Crocifisso, senza tralasciare anche la ricerca esegetico-teologica contemporanea.
* G. Rossé, Mio Dio, perché mi hai abbandonato. Inchiesta sui Padri della Chiesa da Giustino a Teodoreto di Cirro. Roma, Città Nuova, 2022, pp. 224, euro 16,90.
Immagine: Bartolomeo Bulgarini, Crocifissione, 1350-51