Per un'etica di fine vita
31 maggio 2022
Il rifiuto di trattamenti inutili: scelta di vita e non di morte
La questione del fine vita va inserita e compresa nel più ampio contesto della bioetica. Tale complessa problematica viene affrontata da Fabrizio Turoldo – ordinario di Filosofia morale presso la Università Ca’ Foscari di Venezia, dove insegna anche Bioetica – nel suo L’etica di fine vita*. Una percezione diffusa della bioetica rimanda a un’etica che pone limiti e confini; in questo, segnatamente la questione del fine vita. In tal caso tuttavia, sostiene Turoldo, «la bioetica non può e non deve limitarsi semplicemente a porre dei confini, perché verrebbe così a perdere il centro: il significato della sofferenza» e il «significato che può assumere la cura, sempre in bilico tra pura prestazione tecnica e presa in carico integrale della persona sofferente».
Allora, non è dato ridurre il problema esistenziale del fine vita in banali termini della liceità o meno dell’eutanasia; al contrario, si tratta di aprire un capitolo sull’etica del morire e dell’accompagnamento dei morenti. A tal fine, il problema sta nell’umanizzare la medicina curando e a un tempo prendendosi cura del soggetto sofferente. La medicina, dunque, deve essere mirata al servizio della persona e non già arrestarsi «all’ottica dello “spiegare”. Una medicina, insomma, che ascolta il paziente e non solo i suoi sintomi», che rispetta il malato quale persona.
«La categoria della crisi è quella più efficace per descrivere il tempo della malattia». Tale tempo è sotteso da un riflettere sul passato, «sui momenti cruciali della propria vita»; il che ha valenza terapeutica. Allora, il parlare di malattia analisi cliniche prescrizioni… deve lasciare spazio al concentrarsi sull’“umanità” del malato, aiutandolo a parlare di se stesso: delle sue speranze e delle sue delusioni, dei suoi fallimenti, delle sue preoccupazioni…»; l’uomo non può essere ridotto «a un organismo funzionale, sordo e muto». Quando in fase terminale di malattie neurovegetative viene meno la capacità di comunicazione verbale, «si possono creare le condizioni per mettere qualcosa in comune anche senza lo strumento della parola». Un esempio per tutti, «il paradigma materno»: la madre sa mettersi in relazione con il sorriso o con il volto triste, con il pianto… In altri termini, «più la malattia progredisce, e maggiore peso acquistano queste modalità non verbali della comunicazione».
Le decisioni di fine vita devono essere sottese dal principio di autonomia. Tale valore deve essere alla base dell’umanizzazione della medicina in una «prospettiva olistica sulla persona»: il paziente va cioè considerato una persona e non già un mero «corpo-oggetto»; per questo, la morte deve essere una «morte umana». Non si può allora parlare di eutanasia e di accanimento: l’accanimento terapeutico (o diagnostico) mediante macchine fa dell’uomo «un uomo-macchina» stabilendo ciò che è bene per lui. Il rischio sta nel non considerare la situazione oggettiva del malato; il quale può anche non sopportare più una situazione esistenziale fatta di una sofferenza non risolvibile con eccessi diagnostici e così rifiutando l’imposizione di «una situazione di debilitazione e di dipendenza». Tale scelta va considerata eticamente legittima «perché nessuno ha l’obbligo di vivere in un modo che miri ad assicurare la vita più lunga possibile. Nel rifiutare questi trattamenti, un paziente non sceglie la morte, ma la vita», seppur una «vita più breve». «L’eutanasia attiva e passiva» sottolinea Turoldo «costituiscono piani d’azione che hanno come principale obiettivo la morte, abbracciata come un bene». Inoltre, si tenga presente che «la questione delle disposizioni anticipate di trattamento si inserisce all’interno del tema più generale dell’autonomia del paziente». «Imporre un trattamento in modo coatto – continua Turoldo –costituisce, infatti, una violenza e un’invasione della sfera personale anche quando questo trattamento non fosse tecnicamente configurabile come una terapia medica». Si tratta di un diritto fondamentale, quello dello Habeas corpus, il cui significato è «che tu abbia diritto a disporre del tuo corpo».
Questo testo di Fabrizio Turoldo, di alta divulgazione, si conclude con una Appendice di estrema attualità e che fa chiarezza su un dibattito tutto “italiano” che ingenera confusione su piani trasversali sino a farne una questione di religione: la legge italiana sulle disposizioni anticipate di trattamento (22 dicembre 2017); l’attuale dibattito italiano su aiuto e istigazione al suicidio attraverso il caso di Fabiano Antoniani, un confronto “storico” (la concezione dello Stato secondo Alfredo Rocco) e, infine, una magistrale analisi e lettura dell’articolo 32 della Costituzione preceduta dall’illustrazione del personalismo relazionale che la ispira. Il lettore potrà così avere, nell’insieme, una panoramica esaustiva su una questione che divide e che viene soprattutto “ideologizzata”, così perdendone di vista la dimensione esistenziale che non può essere ignorata.
* F. Turoldo, L’etica di fine vita. Nuova edizione. Roma, Città Nuova, 2021, pp. 132, euro 17,00.