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Falcone, l’eredità è nella testimonianza

Il 23 maggio 1992 la strage mafiosa di Capaci, un evento che sconvolse il Paese. Il ricordo degli evangelici allora in Sicilia e l’impegno delle chiese per un’azione trasformativa della società che si spinge fino a oggi

Fa caldo quel sabato di fine maggio di trent’anni fa. A Roma onorevoli e senatori, bloccati da veti incrociati e dall’incubo Tangentopoli che sta per spazzare via molti fra loro, dopo quindici scrutini ancora non sono stati in grado di scegliere il nuovo presidente della Repubblica. Il clima è da fine Impero. Alle porte del Palazzo si accalcano magistratura e opinione pubblica a chieder conto di decenni di impunita gestione e spartizione del potere. Grande tessitore ancora una volta appare l’eterno Giulio Andreotti, a tirare i fili che vedono una dopo l’altra far cadere le candidature al Quirinale di Forlani, Vassalli, Conso. 

Alle 16.45 del 23 maggio un jet di servizio partito un’ora prima da Ciampino atterra a Punta Raisi. A bordo ci sono il direttore degli Affari Penali del ministero della Giustizia Giovanni Falcone e sua moglie, la giudice Francesca Morvillo. Si contano sulle dita di una mano coloro che conoscono gli spostamenti della coppia, in quanto Falcone è il magistrato più temuto dai mafiosi, soprattutto dopo l’esito del Maxiprocesso che ha mandato in galera centinaia di loro.

Eppure, poco più di un’ora dopo, alle 17.58, l’Attentatuni: oltre 400 chili di esplosivo piazzati giorni prima sotto l’autostrada squarciano la quiete e spazzano via le vite di Falcone, Morvillo e di tre agenti della scorta: Rocco Dicillio, Antonio Montinaro e Vito Schifani (simbolo della strage sono ancora oggi le parole della vedova Rosaria al funerale, rivolte ai killer: «Io vi perdono però vi dovete mettere in ginocchio.. ma loro non cambiano, loro non vogliono cambiare..»).

«Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere» aveva detto appena un anno prima Falcone alla giornalista Marcelle Padovani. Falcone era solo da molto tempo nell’ambito della sua attività, isolato dall’invidia dei colleghi, dalle polemiche scatenate dalla politica e dai vertici della Magistratura. Da un minuto dopo la sua morte e per trent’anni non è esistito e non esiste più uno di questi nemici, tutti scomparsi. Chi non lo ha lasciato solo è la cosiddetta società civile, protagonista di quella stagione di accesa e convinta lotta alla mafia.

«Sapeva di dover morire dal momento in cui aveva intrapreso quella che considerava la “missione” della sua vita: sconfiggere il sistema mafioso» scriveva su “La Luce” (allora organo delle chiese valdesi e metodiste) del 29 maggio 1992 il redattore Jean-Jacques Peyronel in prima pagina con viva emozione.

Proprio in quel fine settimana di maggio al Servizio Cristiano di Riesi, opera diaconale valdese, sono riuniti «per la consueta assemblea primaverile del XVI circuito i rappresentanti delle chiese valdesi e metodiste della Sicilia» ricordava il pastore Franco Giampiccoli nel bollettino della Società di studi valdesi del 17 febbraio 1999 che prosegue: «Sgomenti, i partecipanti all’Assemblea decidono di manifestare il loro dolore, la loro intransigente negazione della logica della mafia, la loro speranza. Da poco tempo la Chiesa valdese di via Spezio, Palermo, ha elaborato una dichiarazione di fede in cui afferma la volontà di “resistere alla logica che sia solo possibile aver paura o fare paura, colpire o essere colpiti” e la possibilità di «avere coraggio e resistere, dare coraggio e persistere». L’Assemblea fa propria questa dichiarazione di fede, la riproduce in un manifesto e ne tappezza i muri di Riesi».  (in fondo all’ articolo riproponiamo parte quel testo profetico).

«Ricordo molto bene la sera del 23 maggio 1992 la telefonata dell’allora moderatore della Tavola valdese Giampiccoli –racconta il pastore Giuseppe Platone, all’epoca direttore proprio del Servizio Cristiano di Riesi-. Una chiamata esterrefatta, piena di commossa umanità e vicinanza alle nostre comunità in Sicilia, coinvolte per prossimità e per sincero impegno in questa lotta contro un nemico che pareva invincibile. Quello stesso giorno venne ucciso anche l’ex sindaco di Riesi Vincenzo Napolitano, ad aggiungere sgomento allo sgomento. C’era un senso di paralisi, l’impressione che lo Stato fosse sopraffatto ma ci fu anche un grande reazione. Riesi era una delle “capitali” mafiose: ci fu chiaro ancora di più che in quegli anni, in quei luoghi, occorreva schierarsi, andare in piazza, dare un segnale, opporsi, sconfiggere anche la rassegnata indifferenza».

In prima linea nel combattere il sistema mafioso e non da un giorno erano le chiese evangeliche in terra di Sicilia, come ci aiuta a ricordare il pastore battista Raffaele Volpe, all’epoca giovane responsabile della chiesa di Lentini, in area catanese: «Erano anni di straordinarie “primavere”, di impegno per la qualificazione generale del Sud Italia e per il contrasto alla criminalità mafiosa. A Lentini era attivo un centro studi che denunciava la violenza, l’omertà, ma poneva sul tavolo anche temi e soluzioni per uscire da una tale situazione di degrado: il lavoro, i diritti, la questione femminile, l’immigrazione, erano oggetto di analisi con il tentativo di coinvolgere le comunità in cui ci trovavamo ad operare. Serviva un riscatto generale per immaginare di superare le logiche mafiose. La bomba contro Falcone voleva anche bloccare questo fermento». Volpe era allora anche componente del consiglio della Federazione giovanile evangelica: «Non c’era riunione senza che il tema della lotta alla mafia fosse all’ordine del giorno. Dedicammo ampio spazio alla materia anche in vari numeri della rivista Gioventù Evangelica». Una latta di benzina lasciata di notte davanti al portone della chiesa certificava la bontà del lavoro svolto.

La pastora Anna Maffei, futura presidente dell’Unione battista, durante la Conferenza del IV Distretto di fine giugno 1992, ribadiva «Quale altro senso può avere per noi, nel sud, la parola evangelizzazione, se non la proposta di fede tesa a formare comunità di uomini e di donne che in questo paese resistono alla mafia persistendo nella giustizia e nella democrazia».

Di quel periodo ricordo bene il prima ed il dopo – ci dice la moderatora della tavola valdese Alessandra Trotta -. Prima, la cappa opprimente creata dalla spaventosa successione continua di uccisioni di uomini e donne che servivano fedelmente lo Stato o che semplicemente facevano il loro lavoro in un pezzo di società civile non silente, che non voleva rassegnarsi a consegnare al potere mafioso la signoria sulla propria vita per vivere da schiavi. Sarà questo, per la giovane credente che da poco aveva confermato la propria fede nella piccola comunità della Noce in cui ero cresciuta, uno dei temi cruciali della mia vita spirituale, del modo di interpretare il rapporto con il mondo, nelle relazioni quotidiane di vita e lavoro professionale e poi in quello che, di lì a pochi anni, sarebbe diventato l’impegno in un servizio diaconale a tempo pieno. Quanto al dopo, la strategia di attacco frontale con cui Totò Riina provò a piegare le istituzioni dello Stato per convincerle a venire a patti fu perdente. Lo shock del 23 maggio (seguito appena due mesi dopo da quello dell’uccisione del giudice Borsellino e della sua scorta), costrinse le istituzioni e parti sempre più ampie della società civile ad una reazione forte. Fu tolto ossigeno alla cultura che guardava benevolmente alla mafia che “non tocca donne e bambini “ e protegge dal disordine e dalle carenze di uno Stato assente; a quella del diritto trasformato in favore da chiedere attraverso necessarie mediazioni degli “amici”; alla legittimità degli affari fatti dalla cosiddetta borghesia mafiosa con la mafia divenuta imprenditrice; alla dimensione del folklore mitizzante (ricordo bene la delusione di tanti gruppi stranieri in visita al Centro Diaconale la Noce per non avere visto per le strade nessun mafioso con la coppola e la lupara..).

In questo moto di scuotimento delle coscienze,  le chiese metodista e valdesi della città e le loro opere diaconali  si inserirono con appassionato impegno, in continuità con un passato in cui la voce di queste piccole comunità aveva saputo varie volte oltrepassare i confini locali (come nel caso del manifesto affisso sui muri della città nel 1963, all’indomani della strage mafiosa di Ciaculli, su iniziativa del pastore Panascia, che dopo un cubitale NON UCCIDERE, faceva appello alle autorità civili e religiose per la ”formazione di una più elevata coscienza morale e cristiana”). Di quell’impegno costituisce una delle testimonianze più vibranti l’emozionante “Credo” elaborato proprio nel maggio 1992 dalla comunità valdese di via Spezio, in cui si sostanzia il fondamento di fede di scelte nette che muovono alla resistenza e all’azione trasformativa». 

Azione trasformativa che, come conclude il pastore Platone «si sostanzia nell’impegno costante delle nostre comunità a creare una cultura della legalità contro le forze del male: un esempio concreto è l’acquisizione in questi anni di un bene confiscato ai mafiosi da parte del Servizio Cristiano, ma anche l’enorme lavoro educativo del centro “La Noce” e nelle altre strutture del meridione».

La strage intanto ha un effetto “stabilizzante” per la politica italiana. A Roma il messaggio è stato compreso chiaramente, prima che altrove. Quella di Andreotti diventa una candidatura impresentabile: troppi i segnali giunti dalla Sicilia, dall’omicidio Lima in poi. In poche ore viene scelto Oscar Luigi Scalfaro quale nono presidente della Repubblica. La seguente stagione delle indicibili trattative fra parti delle Istituzioni e referenti mafiosi per porre fine alla carneficina attende ancora verità processuali e storiche.

«Il problema è che la lotta alla mafia non è mai statica, ci sono momenti ottimi, ma anche inverni molto profondi; la sensazione che io ho è che noi stiamo vivendo un certo inverno. Abbassare la guardia è sempre ancora il pericolo maggiore» conclude il pastore Volpe.

 

Confessione di Fede della chiesa valdese di Palermo

Crediamo nel Dio di cui ci ha parlato Gesù di Nazareth, 

nel Dio che sa sognare nuovi cieli e nuova terra,

che apprezza i semplici e ascolta i poveri,

che giudica i superbi e sostiene i mansueti.

Egli solo ci è Padre!

Con lui vogliamo resistere ai signori della morte

e crediamo che non esista solo la scelta tra ammazzare o essere ammazzati,

ma che è possibile lottare senza armi

e con lui resistere all’indifferenza.

Vogliamo resistere alla logica che sia solo possibile avere paura o fare paura,

colpire o essere colpiti.

Con lui vogliamo credere che è possibile avere coraggio e resistere,

dare coraggio e persistere.

 

Crediamo che nell’ebreo Gesù,

umile falegname della Palestina,

in cui ha abitato la pienezza di Dio,

che ha portato lo Spirito della verità e della giustizia,

abbiamo trovato la via.

Egli solo ci è Signore!

In lui ora sappiamo che dobbiamo lasciare le vie tracciate da altri,

la vita soffocata dal desiderio di quieto vivere,

dal tornaconto e dall’ammirazione per i furbi.

Con lui vogliamo resistere ai maestri di morte

E crediamo che non esista solo la scelta o noi o gli altri,

ma che è possibile resistere al malvagio

e sconfiggere la mafia,

non pagare tributi alla prevaricazione e alla morte,

e con lui osiamo sognare per vedere un giorno

tempi di giustizia e di pace, 

tempi di fratellanza e di sazietà.

 

Crediamo nel dono dello Spirito di Dio,

reale presenza di Dio,

concreta forza della nostra resistenza,

vero sostegno nelle momentanee sconfitte,

coraggio nell’assumere posizioni chiare

contro ogni sopraffazione.

Egli solo ci è guida!

Per lui condanniamo chi versa sangue si fa giustizia da sé;

riteniamo colpevole chiunque usi violenza,

chiunque corrompa e chiunque si lasci corrompere.

Con lui vogliamo resistere ai giustizieri della morte

e crediamo che non esista solo la scelta

o l’omertà o la morte, ma che è possibile

resistere alla paura dei ricatti e alla sfida delle lupare

persistendo nella giustizia.

Con lui vogliamo sognare che i fiori dei nostri campi

e le strade dove giocano i nostri bambini

non saranno più bagnati 

né da sangue innocente né da sangue colpevole,

perché l’ultima parola sarà data alla vita.

 

Atto del Sinodo 1992

Il Sinodo…di fronte ai recenti atti criminali perpetrati dalla mafia nel nostro paese, nonché al perverso intreccio fra pubblica amministrazione e interessi privati di singoli e di partiti, incoraggia tutti gli evangelici a reagire al senso di rassegnazione e di impotenza che può derivarne, anche con una decisa assunzione di responsabilità personale; esorta i singoli e le chiese ad esprimere, nella condotta quotidiana, nelle attività formative dei giovani, nella predicazione e nelle forme di testimonianza rinnovatrice che viene dall’Evangelo, la speranza nel Signore della vita, la vigilanza contro violenze, soprusi, discriminazioni; decide di caratterizzare la “settimana della libertà” del febbraio 1993 come settimana di mobilitazione degli evangelici per la “libertà dalla mafia”; chiede al consiglio della Fcei di organizzare forme e modi di una presenza pubblica delle chiese evangeliche italiane in tale occasione.

Foto di annalisa ceolin NO new Fli

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