Il libro. Il pane perduto di Edith Bruck
27 gennaio 2022
Il pane perduto (edito da La nave di Teseo) è un libro da avere tra le mani sempre e in particolar modo oggi 27 gennaio, Giorno della memoria
Il pane perduto (edito da La nave di Teseo - 2021) è un libro da avere tra le mani sempre e in particolar modo oggi (27 Gennaio), Giorno della memoria. Un libro di memorie della poetessa e testimone della Shoah, Edith Bruck.
Sopravvissuta alla tragedia delle tragedie, Edith Bruck, nome d’arte di Edith Steinschreiber, nata a Tiszabercel il 3 maggio del 1931, da sempre incontra i giovani nelle scuole, tiene dibattiti, scrive libri e poesie, per raccontare ciò che è stato, affinché non succeda mai più.
Bruck (vincitrice dell’ottava edizione del Premio Strega Giovani), ebrea ungherese, ricorda quanto il pane sia l’essenza della vita.
Pane come simbolo - emblema - di sussistenza, di condivisione. A sessant’anni dal suo primo libro l’autrice nel Pane perdutoindaga nella memoria della sua infanzia e porta il lettore nel suolo polacco di Auschwitz, poi in Germania e infine in Italia e dove risiede da quasi tutta la sua vita.
Che fare di questa salvezza ricevuta? Si chiede Bruck.
Domanda comune ai sopravvissuti.
«Restare in vita è stato “un miracolo”. Perché io? Com’è stato possibile dopo aver patito tanta sofferenza per le continue vessazioni, le umiliazioni, le violenze, la sete e la fame. Com’è stato possibile sopravvivere in luoghi dove la vita era appesa al nulla, alla pura casualità. Dove la morte poteva giungere in qualsiasi istante, anche e solo per un semplice capriccio di un soldato», rileva l’autrice.
Già, perché era così, in quei luoghi gli ebrei, gli oppositori politici, i rom i sinti, le persone portatrici di handicap erano solo numeri e carne da macello. Materiale umano da annientare. Dopo la deportazione nel campo di Auschwitz per Edith e la sorella Judith inizia una nuova tragedia, quella nel campo di Dachau.
«Finalmente – scrive l’autrice –, come fosse la liberazione, ci spostarono nei vagoni dalla Polonia alla Germania. Ci misero in un campo con trentadue baracche. [...] E lì, un giorno, successe un miracolo! Un soldato dopo aver mangiato gettò tra le mie mani la sua gavetta con l’ordine di lavarla, come ogni giorno. Quel giorno, però, dentro la gavetta, nel fondo aveva lasciato un po’ di marmellata; poca cosa si poterebbe pensare: era invece un segno di speranza. Per me fu come ricevere un bene caduto dal cielo sulla terra, come ricevere dall’alto un segnale che mi esortava ad andare avanti, a non arrendermi; che mi chiedeva di sopravvivere e di credere nel futuro. Un gesto che mi fece capire che anche nel buio più remoto dei sentimenti umani, in fondo, c’è sempre la possibilità che possa arrivare un po’ di luce».
La tragedia della Shoah è difficile da raccontare e Bruck, ogni volta riesce a farlo invertendo il racconto, mai partendo dal male, ma dal bene ricevuto in alcune occasioni di quella terrificante esperienza. Raccontando il volto umano di quella follia omicida disumana. Così, riesce a far emergere con ancor più forza l’indicibilità di quel male: un male perpetrato da uomini ad altri uomini. E lo fa con parole crude, disinibite, vere, dove il pudore emerge con parrèsia proprio nella sua nudità.
Proprio a Dachau (dopo essersi salvate dalle mani del boia Mengele che aveva scelto le due sorelle a Auschwitz credendole gemelle), le due sorelle poco più che bambine sono sottoposte a una ennesima selezione e insieme a altre tredici ragazze, scelte per lavorare nelle cucine del campo.
Edith ricorda, «se una donna delle SS non m’avesse picchiata immotivatamente ogni mattina all’uscita dalla cucina e se non ci avessero imposto di assistere quotidianamente a violenze inaudite e all’impiccagione di giovani ragazze e ragazzi, o ancora, permesso che i figli dei gerarchi nazisti ci sputassero in faccia e ci insultassero in ogni occasione, potremmo dire che eravamo state molto “fortunate”».
Poi, la marcia della morte, la liberazione e la riabilitazione. Il tentativo di riconquistare una vita normale. Una normalità, si legge nel libro, che non sarà affatto facile riottenere.
Bruck, confida la sensazione di estraneità provata tra i parenti, persone che non avevano vissuto la deportazione, la prigionia, la violenza, la paura di quei non luoghi; ricorda un tentativo, quello di trovare una “casa” andando a vivere in Israele. E infine il suo approdo in Italia, dove conoscerà l’amore della vita: il poeta e scrittore Nelo Risi.
Il pane perduto non si ferma alle tragedie di ieri, indaga nelle derive dell’oggi. Bruck, non perde occasione per esprimere la sua preoccupazione per le nuove forme di antisemitismo, per l’acuirsi di sentimenti xenofobi, identitari, condanna la costruzione dei nuovi muri di separazione, d’intolleranza, i fili spinati tra le frontiere, anche in Europa. Denuncia i movimenti che ancora oggi si richiamano al fascismo, al nazismo, ostentando intolleranza, odio e violenza.
Bruck, conclude il libro con una lettera. Il destinatario è Dio. Sì proprio Lui.
«Questa è seconda lettera scritta Dio a ottant’anni dalla prima», ricorda. La prima la scrisse quando di anni ne aveva appena nove.
Il pane perduto è un libro - un diario - necessario, schietto e sincero. È una bussola capace di indicare quale strada l’umanità (per non perdersi di nuovo nella disumana cattiveria e nella crudeltà) dovrebbe tentare di perseguire.