Ghetti, non campi nomadi
13 marzo 2015
I piccoli passi da parte del Senato per superare la ghettizzazione dei cosiddetti “campi nomadi” sembrano andare nella direzione giusta
La Commissione diritti umani del Senato ha approvato una risoluzione che impegna il Governo a trovare nuove soluzioni alla questione dei cosiddetti "campi nomadi” parallelamente a una strategia nazionale per l'inclusione delle etnie Rom, Sinti e Camminanti. Poche settimane fa l’ultimo rapporto della Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza aveva nuovamente rimproverato l’Italia di non garantire il rispetto di queste comunità. A questo si è aggiunta l’inchiesta su Mafia Capitale, che ha evidenziato come la confusione politica permetta l’inserirsi delle modalità malavitose anche nella gestione dell’accoglienza o dell’integrazione, e in particolare a Roma, nella gestione dell’integrazione dei Rom. Commentiamo le notizie con Alessia Passarelli, dottoressa in Sociologia, che si è occupata a lungo dei gruppi Rom rumeni a Roma.
Come commenta queste notizie?
«Mi viene in mente che ancora oggi venga detto a sproposito che i Rom sono nomadi, e quindi si parla di campi nomadi anche se la maggior parte dei Rom italiani, o provenienti dall’est, dalla Romania per esempio, sono stanziali. Già nella percezione dell’opinione pubblica, dire campi nomadi dà delle indicazioni sbagliate. Questi campi non hanno nulla di temporaneo, sono stati costruiti e pensati negli anni '70, quando alcuni dei Rom che si muovevano per motivi di lavoro avevano bisogno di aree attrezzate con servizi: da aree temporanee sono diventate aree permanenti.. Bisognerebbe superare questo concetto, sicuramente perché la Commissione europea da anni ci invita a farlo, ma soprattutto perché sono dei ghetti, che creano un controllo sulle persone che ci vivono e anche un target group: diventi Rom perché vivi in quel campo, non per la tua appartenenza etnica. Si creano delle condizioni deviate e devianti all’interno di questi ghetti, la criminalità e situazioni negative che succederebbero a chiunque in condizioni simili».
Quali sono le buone pratiche per uscire da questa situazione?
«Sicuramente quella di trattare i Rom come tutti gli altri cittadini, aiutarli a inserirsi nel tessuto sociale, dar loro la possibilità di accedere a delle case. Molti dei Rom che sono venuti qui dalla Romania prima vivevano in case di mattoni, non in container. Bisogna però fare attenzione a non creare un altro ghetto abitativo. Come in tutte le situazioni di pianificazione, tutti gli attori coinvolti dovrebbero essere seduti al tavolo delle trattative: per pensare a un piano abitativo per i Rom, è imprescindibile farlo con i diretti interessati. Quello che è successo con mafia Capitale è stato solo la punta dell’iceberg».
La soluzione della Commissione del Senato è un buon inizio?
«Il riconoscimento è sicuramente uno dei primi passi, anche se da solo non basta. Senza diritti e riconoscimento dell’importanza della lingua e della cultura di un popolo che vive in Italia da secoli, non si fa molta strada, ma è indispensabile anche per cambiare la cultura italiana, che vede la maggior parte dei rom come degli stranieri, senza rendersi conto di come hanno vissuto e contribuito in Italia ben prima della costruzione dell’Italia stessa. I Rom sono la prima minoranza etnica europea, sarebbero gli europei per eccellenza da un certo punto di vista».
I Rom vengono raccontati sempre quando si tratta di emergenza: abitativa, sociale...
«Non credo che ci sia un'emergenza, credo che dirlo serva per gestire in maniera frettolosa, poco mirata e poco lungimirante, una situazione che sicuramente ha delle difficoltà e si è incancrenita, ma da qui a parlare di emergenza Rom c’è differenza. Se vediamo i numeri dei Rom stranieri che sono in Italia, rispetto a quelli europei, abbiamo una percezione falsata. L’associazione 21 Luglio sta lavorando per questo, con il suo lavoro di promozione, di advocacy, per far capire che l’emergenza Rom viene cavalcata a livello politico per fini elettorali. Ragionare in maniera diversa attuando le direttive che l’Europa ci chiede, ci permetterà di capire se la strada è giusta o no».