La pena di morte non fa notizia
11 marzo 2015
Stiamo assistendo a un trend positivo per l'abolizione della pena di morte, ma se ne parla ancora poco
Ai primi di marzo il Parlamento del Suriname ha abolito la pena di morte. Secondo Amnesty International è il 101esimo paese completamente abolizionista. La decisione si è inserita in un grande quadro di riforma della giustizia che il paese sudamericano sta portando avanti da tempo. «C’è un’evoluzione positiva nel mondo, in corso da oltre 15 anni – dice Sergio D'Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino – ogni anno due o tre stati aboliscono la pena di morte».
In quale quadro si inserisce questa notizia positiva?
«Intanto c’è un’evoluzione positiva nel mondo, in corso da oltre 15 anni: ogni anno due o tre stati aboliscono la pena di morte. Il Suriname nel motivare la sua decisione, quella del Parlamento del 3 marzo, ha fatto proprio riferimento a questo trend internazionale. Nel prendere la decisione hanno anche ricordato che anche gli Stati che più praticano la pena di morte non hanno innalzato i livelli di sicurezza interna. Negli Stati Uniti si conferma questa regola: gli Stati che hanno abolito la pena capitale, alcuni dal secolo scorso, sono quelli più sicuri se si considerano i tassi di criminalità. Gli artefici di questa tappa significativa in Suriname hanno fatto un lavoro lungo negli ultimi anni, soprattutto l’organizzazione “Parlamentari per l’azione legale”, i cui capi sono sia della maggioranza che dell’opposizione. Hanno creato le condizioni politiche, creando un intergruppo bipartisan in parlamento che ha reso possibile l’abolizione; un altro artefice è stato il ministro della giustizia Edward Belfort, il quale l’anno scorso era stato molto chiaro sul punto, dicendo che lo Stato non si può degradare al livello di coloro che commettono crimini. La cosa importante è che Belfort ha presentato in Parlamento anche un piano di trasformazione delle case di detenzione in case di correzione, in modo che i detenuti siano preparati per il loro reinserimento nella comunità. Peraltro il Suriname, nel dicembre scorso, aveva votato a favore della risoluzione Onu per la moratoria universale delle esecuzioni capitali: c’è una continuità di fatti significativi che ha portato all’abolizione. Il passaggio Onu è stato fondamentale: nessuno ci credeva, sono 20 anni che presentiamo una risoluzione per la moratoria, e per la prima volta dal 2007 l’Assemblea Generale l’ha votata a grande maggioranza. Un voto decisivo per quei paesi che avevano dei dubbi, che hanno scelto la via della moratoria, una sorta di tregua che aiuta la riflessione, consente il tempo necessario ai Parlamenti di modificare leggi, codici penali e costituzioni».
Alcuni paesi hanno abolito la pena capitale, altri non la praticano ma continua a essere presente nelle legislazioni e nelle Costituzioni: perché non vengono cancellate?
«Non è una questione burocratica, ma persiste il luogo comune che sia meglio avere la pena di morte anche se non viene applicata. Sono una quarantina i paesi che non la praticano da oltre 10 anni. Pensano che possa funzionare come spauracchio, anche se sappiamo che alla prova dei fatti questa è una motivazione inconsistente. Un leader, che dovrebbe stare un passo avanti all’opinione pubblica e non un passo indietro, dovrebbe avere il coraggio di risolvere il problema: si pensa che l’opinione pubblica non sia preparata a fare riforme o progredire sui diritti civili e politici ma in realtà, se opportunamente informata, può dare meno spazio alle emozioni e ai luoghi comuni».
Su questo tema, come è raccontata dai media la pena di morte?
«Praticamente non è raccontata. Anche per quanto riguarda la notizia positiva del Suriname. Siamo al solito meccanismo dei grandi media: le notizie negative, i disastri, le tragedie, finiscono sulle prime pagine; le notizie con un segno diverso non interessano, c’è indifferenza. Questo è un danno dal punto di vista culturale ed educativo nei confronti dell’opinione pubblica che invece viene nutrita di notizie mortifere. Se si produce questa agenda della comunicazione, non c’è da meravigliarsi che la violenza sia dominante e diffusa ovunque. Un format autolesionista: il ruolo dei mezzi di informazione è fondamentale nella visione del futuro, nella percezione della sicurezza e così via. Si pensi al caso degli omicidi: sono in netta diminuzione, ma appena ce n’è due o tre eclatanti sembra che la tendenza sia contraria».
Dove sono le criticità più grandi?
«Le democrazie, come quella americana, che praticano ancora la pena di morte sono quattro o cinque, rappresentano l’1% delle esecuzioni totali. Invece la Cina è il primo paese per esecuzioni, ma se calcoliamo il numero delle condanne in rapporto alla popolazione, il primo effettivo è l’Iran: questo ci dice che i paesi totalitari e quelli illiberali sono il vero problema, a partire dal regime iraniano».