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Interfilm premia «Amira» del regista egiziano Mohamed Diab

Ne abbiamo parlato con Davide Perego, membro della  Giuria interreligiosa di Interfilm, che ha premiato la pellicola a Venezia

Fondata nel 1932, la Mostra del Cinema di Venezia è la più antica rassegna cinematografica del mondo, con Cannes, Berlino, Locarno tra le più autorevoli. Da dieci anni a questa parte, la  Giuria dInterfilm assegna il «Premio per la promozione del dialogo interreligioso» prendendo in considerazione i film del Concorso Internazionale e dedicandosi in particolar modo alla sezione «Orizzonti». Un premio che ha lo scopo di «incoraggiare i film che rafforzano la comprensione, il rispetto, l’empatia e la pace tra persone di origini, storie e religioni diverse dando così l’esempio contro i conflitti, la violenza e l'oppressione», con l’aspirazione di collegare cinema e chiesa, culture e religioni.

Interfilm è stata fondata nel 1955 da diverse Associazioni cinematografiche protestanti presenti in Europa ed è portatrice di Giurie nei più importanti Festival cinematografici. Dal 2011 opera anche a Venezia, avvalendosi del supporto dell’Associazione cinematografica protestante Roberto Sbaffi. Tra i film premiati in passato: Girimunho (Swirl) dal Brasile; Wadjda (Arabia Saudita); Philomena (Gran Bretagna); Far From Men (Francia); Wednesday, May 9 (Iran); White Sun (Nepal); Oblivion Verses (Cile), Tel Aviv on Fire (Israele) e Un fils (Tunisia).

La  Giuria ecumenica quest’anno è stata presieduta dal giornalista olandese Piet Halma, già vice-presidente dell’Associazione mondiale per la comunicazione cristiana – Wacc. Gli altri membri erano la pastora riformata svizzera Brigitte Affolter, co-presidente di Interfilm Svizzera, il critico cinematografico tedesco Peter Paul Huth, e il videomaker italiano Davide Perego, che abbiamo raggiunto al telefono per raccogliere a caldo le sue impressioni e farci conoscere il nome del film vincitore in questa decima premiazione di Interfilm a Venezia.

– Come ha vissuto l’esperienza nella  Giuria di Interfilm a Venezia?

«È stata un’esperienza importante. Il lavoro della  Giuria (formata da soli quattro membri, due giurati non sono riusciti raggiungere Venezia) è stato meticoloso e attento nelle sue analisi. Ero l’unico italiano. La nostra attenzione è stata rivolta ovviamente alle pellicole in particolar modo attente al tema del dialogo tra culture e religioni. I criteri di giudizio sono stati però trasversali. L’approccio interdisciplinare ha permesso alla  Giuria di poter valutare anche i film non esplicitamente rivolti alla dimensione interreligiosa ma che, in qualche modo, potessero far emergere un afflato spirituale».

– Qual è il titolo del film che avete premiato e perché la vostra attenzione si è rivolta proprio a quest’opera? 

«Amira. Un’opera di Mohamed Diab Diabregista egiziano da sempre impegnato a esplorare il variegato universo identitario. La pellicola, in chiave metaforica, racconta il tema del conflitto. La storia è quella di Amira, una giovane diciassettenne palestinese nata dal concepimento avvenuto con l’inseminazione assistita –. Suo padre Nawar, da sempre in carcere, è per lei un “eroe” palestinese. Il liquido seminale dell’uomo è stato trafugato in modo illecito (di contrabbando) e consegnato alla madre. Il rapporto tra Amira e suo padre si è sempre e solo limitato alle visite in carcere; tuttavia Nawar è una figura genitoriale fondamentale per la ragazza. L’assenza del padre nella vita della giovane è sempre stata compensata dall’amore e dall’affetto delle tante persone che le vivono acanto. Tuttavia, un successivo tentativo della madre e di Nawar di poter avere una nuova gravidanza si rivelerà un dramma e porterà a galla, accertata da un medico, la sterilità genetica dell’uomo. Amira non è dunque la figlia di Nawar. Da quel momento la ragazza vivrà una profonda crisi legata alla percezione dell’identità; crisi identitaria che esonderà in quella più vasta e connessa al tema del conflitto, dove le visioni spirituali e ideologiche della giovane si perderanno in quelle più ampie e legate alle dinamiche geopolitiche e religiose del suo mondo». 

– Quante volte si è riunita la  Giuria e quali altri film avete visto e valutato?

«Cinque o sei volte per valutare e discutere dei film, che sono stati davvero tanti. Ovviamente, il lavoro di selezione per arrivare a una sintesi è stato faticoso ma condiviso. Si è deciso, sin da subito, che il film vincitore dovesse essere votato da tutta la  Giuria. Questa è stata una nostra scommessa. L’altro film che la  Giuria ha valutato tra i più meritevoli per Interfilm era Il Buco di Michelangelo Frammartino, un documentario dedicato alla spiritualità ma fatta emergere in modo più naturalistico, direi animista. Il dialogo all’interno della  Giuria è sempre stato franco, schietto, diretto. Nonostante le sensibilità fossero spesso differenti sui metodi didattici e analitici, si è sempre riusciti ad arrivare a un punto di sintesi, comune e condiviso».

– Lei ha citato Il Buco, pellicola molto apprezzataa a Venezia e non solo dalla  Giuria Interfilm. Avete previsto delle menzioni speciali?

«Sì, la menzione speciale è andata a due lavori: al già citato Il Buco e a Riflesso di Valentyn Vasyanovych, un film ucraino in concorso davvero molto cruento. Una storia che cerca di rispondere alla domanda della morte e del dolore, sia quello ricevuto sia quello inflitto. Film che anche in questo caso ha messo in relazione un padre e una figlia». 

– Quanti film avete dovuto visionare?

«Tanti. Ma Interfilm aveva già fatto una pre-selezione. Il lavoro è stato comunque impegnativo. Inoltre, lo sguardo della  Giuria è andato ben oltre le pellicole previste nella sezione “Orizzonti”».