Solo l’Europa salverà l’Irlanda
11 maggio 2021
A cent’anni dalla divisione della Repubblica di Dublino, e dopo la Brexit, si riaffacciano all’orizzonte i fantasmi di un lungo e sanguinoso conflitto. I leader delle chiese dicono chiaramente il loro no alla violenza
A 100 anni dalla divisione dalla Repubblica di Dublino, le sei contee dell’Irlanda del Nord non trovano pace e tornano a vivere l’incubo dei trouble: oltre trent’anni di violenze settarie che tra il 1967 e il 1998 provocarono oltre tremila vittime. Fatte le debite proporzioni, è come se nello stesso periodo in Italia fossero morte quasi centomila persone. Il bilancio di una guerra, combattuta a colpi di attentati contro obiettivi militari e civili, scuole, locali pubblici. Un accordo di pacificazione è arrivato solo nel 1998, dopo un lungo processo favorito dalla comunità internazionale e dalla mobilitazione di un “popolo della pace” stanco dei morti e degli attentati. Sullo sfondo, la storia secolare di un’isola in cui le identità confessionali si sono intrecciate a quelle politiche: repubblicani che combattevano per la riunificazione dell’Irlanda, i cattolici; unionisti legati all’Inghilterra e fautori del British rule, i protestanti. Un intreccio politico-religioso alimentato da scuole del settarismo troppo a lungo incoraggiate e sostenute dalle Chiese; uno scontro politico rappresentato in parate, murales e simboli anche religiosi. La svolta arrivò soltanto nel 1998, con l’accordo “del Venerdì santo”, confermato il 23 maggio successivo con due distinti referendum celebrati nella Repubblica e nelle sei contee dell’Irlanda nel Nord.
L’Accordo ridisegnò i rapporti tra Irlanda e Regno Unito costruendo un equilibrio, necessariamente compromissorio, tra le istanze repubblicane e quelle unioniste. Le sei contee restavano sotto la bandiera del Regno Unito ma, a bilanciare questo riconoscimento all’unionismo, si costituiva un’Assemblea legislativa regionale nella quale nessun partito avrebbe potuto avere la maggioranza assoluta e, per quanto possibile, si sarebbe perseguita una politica di “unità nazionale” costruita attorno a grandi intese tra i partiti dominanti. L’Accordo, inoltre, regolava il trattamento dei prigionieri politici e lo smantellamento dei gruppi paramilitari. L’appartenenza comune all’Unione Europea era una garanzia per tutte e due le parti, una sorta di foro condiviso per risolvere i contenziosi e sostenere il processo di pace con robusti finanziamenti a sostegno di un’area economicamente fragile, con isole di diffusa povertà
Come era prevedibile, la Brexit ha scosso questo equilibrio. Da una parte, la componente repubblicana si è sentita improvvisamente più debole nel confronto con la controparte unionista. D’altra parte, gli Unionisti si sentono traditi dal loro stesso governo per la clausola che ha consentito la permanenza delle sei contee nordirlandesi nel mercato comune europeo, il mantenimento dell’unione doganale con la Repubblica e quindi l’apertura di un canale commerciale ritenuto privilegiato con Dublino. Gli Unionisti hanno avversato questa misura e ora denunciano – sulla base di paure ataviche più che di dati concreti – che gli scambi commerciali con la Repubblica sarebbero più facili e fluidi rispetto a quelli con il Regno Unito. In una situazione di difficoltà economica, aggravata dalla crisi pandemica, basta un fiammifero per provocare un incendio. E puntualmente, aprile è stato il mese di tafferugli e scontri che hanno causato decine di feriti e arresti, culminati con le dimissioni della premier, leader del principale partito unionista, Arlene Foster. Siamo, insomma, di fronte al concreto rischio di un pericolosissimo vuoto di potere e di prospettive che potrebbero dare fiato alle fazioni violente e resuscitare fantasmi paramilitari. In realtà, alcuni segnali si erano già registrati già nello scorso giugno quando, violando le restrizioni anti-Covid, alcune migliaia di persone – tra cui la vice-prima ministra del governo del Nord, Michelle O’Neill, e il capo della polizia, Simon Byrne – parteciparono ai funerali di Bobby Storey, un tempo paramilitare dell’esercito repubblicano irlandese (Ira) e poi attivista del partito repubblicano Sinn Féin, ora al governo con il Partito democratico unionista. Gli Unionisti protestarono con forza e provocarono degli scontri. La miccia era accesa.
Un salto all’indietro? Il rischio è molto concreto, ma c’è una differenza importante rispetto al passato: la Chiesa cattolica e quelle protestanti oggi sono unite nella denuncia delle “scene strazianti” a cui si assiste nelle strade nordirlandesi. Lo scorso 12 aprile i leader delle comunità cristiane dell’isola evangelizzata da San Patrizio, infatti, hanno sottoscritto una lettera aperta in cui ammoniscono che «una nuova generazione di giovani nordirlandesi rischia la propria vita e il proprio futuro perché numerosi allarmi sul bisogno di proteggere con cura una pace fragile sono rimasti inascoltati». Parole severe, unite a una sottolineatura politica non scontata sugli effetti della Brexit e a una recriminazione: «Alcune delle sfide erano prevedibili». L’Unione Europea è di nuovo chiamata in causa.