Una visione nuova in materia penale?
31 marzo 2021
Alcuni interventi della ministra della Giustizia Cartabia, già presidente della Corte costituzionale, lasciano sperare in un futuro in cui il carcere non sia più l’unica possibilità per scontare una pena
Una ventata nuova al ministero della Giustizia? Sembra di sì, anche se a partire da parole del passato (eppure attualissime e quanto mai urgenti) come quelle del tedesco Gustav Radbruch (filosofo del diritto vissuto tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima del Novecento) riprese da Aldo Moro in un suo scritto giovanile: «Abbiamo bisogno non tanto di un diritto penale migliore, ma di qualcosa di meglio del diritto penale».
Parole che tornano a risuonare nel dibattito pubblico grazie alla nuova ministra della Giustizia, Marta Cartabia, durante il suo video-intervento al XIV Congresso delle Nazioni Unite a Kyoto, sulla «Prevenzione del crimine». La ministra (ex presidente della Corte costituzionale) ha confermato la sua grande attenzione al tema del carcere, ribadendo la necessità che il trattamento dei detenuti sia improntato all’idea della giustizia come riconciliazione. Cartabia ha insistito sull’importanza dei progetti di lavori di pubblica utilità, volti al reinserimento dei detenuti, sottolineando un concetto ovvio (secondo logica, ma anche avvalorato dalle statistiche): «A fronte di un trattamento carcerario più costruttivo corrisponde un più basso tasso di recidiva».
Concetto già espresso in Commissione Giustizia della Camera: «La qualità della vita dell’intera comunità penitenziaria, di chi vi opera, con professionalità e dedizione, e di chi vi si trova per scontare la pena, è un fattore direttamente proporzionale al contrasto e alla prevenzione del crimine». Parole che non sono estemporanee, ma che raccontano di un coerente impegno di Cartabia per l’umanizzazione del carcere. Già da vicepresidente della Corte costituzionale, infatti, Cartabia aveva partecipato all’iniziativa delle visite nelle carceri, passando un’intera giornata con i detenuti di San Vittore: «I vostri problemi mi faranno compagnia nel lavoro e nella vita personale.
Mi auguro che gli ideali della Costituzione possano fare compagnia a voi in questo vostro viaggio». In più (sembra un dettaglio ma non lo è) «come primo atto appena entrata nel governo Draghi, è andata a trovare il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale», ricorda David Allegranti sul sito web de La Nazione. Facile immaginare come questa sua visione abbia acceso molte speranze all’interno e all’esterno dell’universo carcerario.
Secondo Cartabia non si può puntare solo sulla repressione all’interno di un sistema separato dal resto della società, ma occorre garantire i diritti, il rispetto e la dignità della persona umana puntando, nei confronti dei detenuti, sulla «attività riabilitativa necessaria al loro reinserimento nella società». Così, in quella ventata di aria nuova (fresca, incoraggiante) fa piacere sentire la titolare della Giustizia citare le Mandela Rules (standard minimi per le condizioni delle carceri) e ricordare che il motto della Polizia penitenziaria Despondere spem munus nostrum, significa «garantire la speranza è il nostro compito».
Già, nella visione orientata al futuro (e non ripiegata sul passato) che Cartabia esprime sul diritto penale c’è la parola speranza, per i detenuti e per la società. E non è un caso che “Nessuno tocchi Caino” (il cui motto è il passo di Paolo Spes contra spem) abbia titolato la raccolta degli atti del suo congresso nel carcere di Opera Il viaggio della speranza, mettendo in appendice proprio una lectio magistralis di Cartabia sulle Eumenidi di Eschilo, una idea di giustizia che passa «dalla maledizione al logos».
Proprio perché sopravviva la speranza nel futuro per Cartabia «il tempo trascorso in detenzione non è un momento di mera attesa, ma deve essere un momento di cambiamento, finalizzato al reinserimento sociale dell’autore del reato». Dunque un carcere e un diritto penale migliori, ma (per tornare a Radbruch) forse si può costruire qualcosa di meglio. Per la ministra, come ricorda Il Dubbio, è necessario orientarsi «verso il superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato. La “certezza della pena” non è la “certezza del carcere”, che per gli effetti desocializzanti che comporta deve essere invocato quale extrema ratio. Occorre valorizzare piuttosto le alternative al carcere, già quali pene principali».
Aria fresca e un po’ di speranza che fanno risuonare le parole di Luigi Manconi (già ospite del Sinodo valdese e di iniziative della Fcei) in un articolo su La Repubblica del gennaio 2020: «Davvero il carcere, previsto dal diritto penale, è compatibile con il principio di umanità? Forse è ora di trovare soluzioni alternative».