Capimmo che eravamo nel posto giusto
24 novembre 2020
A margine del 40° anniversario del terremoto in Irpinia, la testimonianza di Stefano Meloni, che insieme ad altri giovani della chiesa battista di Cagliari arrivarono ad un mese dal sisma nel paesino di Senerchia (Av)
All’indomani del terribile terremoto dell’Irpinia, avvenuto il 23 novembre del 1980, la Federazione delle chiese evangeliche in Italia si mobilitò organizzando i primi soccorsi: si mossero le comunità locali, le opere diaconali e i giovani della Federazione giovanile evangelica in Italia (Fgei). «Uno sforzo corale senza precedenti», lo ha descritto il presidente della Federazione delle chiese evangeliche, pastore Luca Maria Negro, in una sua riflessione in occasione del 40° anniversario del sisma in Irpinia.
Tra i giovani che arrivarono nelle zone terremotate, ci fu anche una dozzina di ragazze e ragazzi che partì dalla chiesa battista di Cagliari. Ricorda quei primi momenti, e ciò che scaturì successivamente a quel viaggio, Stefano Meloni.
«Arrivammo a Roma, e poi proseguimmo fino a Senerchia (AV). Era il 22 dicembre 1980, c’era un freddo pazzesco, la neve, e noi cagliaritani, per niente abituati a quelle temperature, eravamo bardati in modo abbastanza curioso! Senerchia era completamente distrutta. La Federazione delle chiese aveva allestito in un campo di calcio una “tenda”: era praticamente il luogo dove venivano condivisi il pranzo e la cena insieme ai terremotati. Non potevamo intervenire sul disastro fisico, ma stavamo a fianco delle persone del luogo. Ricordo la sensazione, che non mi ha più lasciato negli anni successivi, che stavamo mettendo in pratica coerentemente quello in cui credevamo: non avevamo vergogna dell’evangelo! Nessuno si chiedeva perché eravamo là: ci trovavamo nel posto in cui dovevamo essere, era il nostro modo concreto di vivere la fede».
Gli aneddoti che riaffiorano alla mente sono tanti… una notte Meloni decide di entrare nella zona del centro storico di Senerchia, che era interdetta alle persone. «Le case erano pericolanti; di notte mi inoltrai nelle vie spettrali di quel paesino con case sventrate, con i balconi pieni di macerie, dove sbattevano gli infissi per il vento forte. Feci solo cento metri: il senso del disastro e dell’assenza dell’uomo fu così potente che me ne tornai indietro. Potei solo immaginare cosa doveva essere per gli abitanti sopravvissuti vedere tutta la loro vita crollata, spazzata via. Però con altrettanta potenza in quei giorni ebbi modo di vedere nei sopravvissuti la voglia di vivere, di andare avanti. Ricordo che la vigilia di Natale, prima di cena, ci lanciammo in una partita di calcio tra volontari e giovani di Senerchia: il campo di gioco fu allestito in mezzo all’incrocio di cinque strade, «e cinq’ vie», circondati da case ormai svuotate. Fu per tutti un Natale speciale! Come spesso accade nei disastri, c’è la capacità di stare vicini senza troppi discorsi, c’è quel senso di vicinanza, di solidarietà spontaneo che ti viene dal cuore e che rende quelle esperienze uniche nella tua vita».
Il gruppo di cagliaritani rimase a Senerchia una decina di giorni, mentre continuò l’avvicendamento con altri gruppi di volontari, provenienti da altre zone del paese: Roma, Valli, Piemonte, ecc.
Dopo la prima fase emergenziale, anche su spinta dell’evangelismo internazionale, la Fcei istituì il Servizio di Azione Sociale (SAS) elaborando progetti a lungo termine: nacquero cooperative agricole, centri di incontro e villaggi abitativi, tra cui quello di Monteforte Irpino, nei pressi di Avellino. Fu acquistato un ippodromo: le stalle dei cavalli diventarono il Centro incontri, dove si ospitavano i volontari. Nell’area dell’ippodromo, furono costruite 30 case prefabbricate inviate dalla Svizzera, di 48 mq ciascuna. Furono costruiti poi un centro sociale e una scuola dell’infanzia.
Si era ormai nella fase della ricostruzione, e in particolare Stefano Meloni, insieme all’allora sua moglie Marcella Tagliasacchi, ricevono vocazione da una sorella della chiesa battista di Roma-Garbatella, Maria Mei, ad andare a prestare servizio a Monteforte Irpino.
«Eravamo giovanissimi – ricorda Stefano –. Si misero in campo in quel periodo importanti attività sociali, come la scuola, che offrì un servizio all’avanguardia per quei tempi, e poi c'era il rapporto con i volontari stranieri, con la gente del Villaggio, di Avellino e di Monteforte con la quale si sono costruiti dei legami fraterni, di accoglienza reciproca: si creò una comunità di persone, questo è il dono che custodisco ancora oggi. Io e Marcella avevamo la sensazione che non saremmo tornati indietro. Invece, dopo 26 mesi trascorsi al Villaggio, rientrammo in Sardegna con un senso di sofferenza e di disagio per aver finito un’esperienza che era assolutamente straordinaria per le tematiche che avevano a che fare con la fede, con la realtà politica e culturale che si stava vivendo, con la vicinanza al prossimo». Negli anni a seguire Meloni è tornato tante volte a Monteforte Irpino che definisce “una mia seconda casa”. «Il risultato più prezioso di quei due anni furono le relazioni amicali e fraterne che si sono conservate. Le persone del Villaggio avevano capito il perché eravamo lì: non per fare chissà quale lezione di vita, o imporre chissà quale modello culturale, ma per essere accanto a loro. Erano nate delle belle relazioni fondate sull’autenticità. Occorre poi prendere atto che nel tempo la gestione dei progetti è stata molto più complicata».
Provando a riflettere su quale impatto ha avuto quell’esperienza nel suo percorso di fede, Meloni non ha dubbi: «è proprio a Senerchia che tutte le parole, alle quali sono stato educato dalla scuola domenicale ai centri giovanili, hanno trovato gambe per camminare; è in quei luoghi che il Vangelo ascoltato per anni poteva essere condiviso e vissuto con tutta la sua complessità. Sapevo di essere nel posto giusto a fare le cose che riuscivo a fare. Lo dico senza enfasi, riconoscendo che in quell’esperienza ci sono state tante sconfitte: 40 anni dopo riconosciamo che tante cose che abbiamo seminato non hanno dato frutto; per alcune persone quel tempo ha lasciato molte ferite. Ma sono grato a Dio per quanto ho vissuto. Gli insuccessi vanno riconosciuti, ma anche che ci sono stati dei semi che hanno dato frutto, come ad esempio le relazioni fraterne e amicali ancora oggi in vita. Ripensando alla realtà delle chiese evangeliche oggi, dico che dovremmo uscire dal meccanismo di fossilizzarci sui nostri limiti e considerare che i semi sono gettati: qualcuno dà frutto, qualcun altro non è immediatamente visibile, ma il Seminatore c’è ed è all’opera».