Via i “decreti sicurezza”: cosa cambia?
09 ottobre 2020
L’analisi di Gianfranco Schiavone (ASGI) di fronte alle modifiche introdotte dal governo italiano lunedì 5 ottobre, dopo mesi di annunci e trattative
Nella serata di lunedì 5 ottobre, il Consiglio dei ministri ha approvato la riforma dei cosiddetti “decreti sicurezza”, introdotti tra il 2018 e il 2019 dal governo Lega-Movimento 5 Stelle, voluti in particolare dall’allora ministro degli Interni, Matteo Salvini. Questo intervento, che arriva dopo mesi di annunci, accordi e trattative tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle, era stato promesso più volte dal Partito Democratico e chiesto anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che aveva segnalato al Parlamento diversi problemi con i decreti, molto restrittivi e a rischio di fronte al diritto internazionale.
Tra le novità più rilevanti, spicca la reintroduzione di fatto della “protezione umanitaria”, cancellata dai decreti Salvini, una delle tre forme di protezione che potevano essere accordate ai richiedenti asilo insieme all’asilo politico e alla protezione sussidiaria. Secondo Gianfranco Schiavone, giurista e vicepresidente di ASGI, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, «è sicuramente la parte più piena della riforma, perché abbiamo il ritorno a una terza forma di protezione, inquadrata come diritto soggettivo, riconosciuto tutte le volte in cui si riscontrano rischi nei confronti degli obblighi derivanti da norme costituzionali o dall'adesione dell'Italia a norme internazionali. Non è una tipizzazione di alcuni casi, che lascia sempre fuori altre situazioni, ma una norma di ampio respiro».
Quali sono i nodi centrali di questa protezione speciale?
«C’è un aspetto che ritengo di grandissima importanza che ancora non è stato adeguatamente commentato, cioè l'introduzione di una nuova clausola di inespellibilità anche per tutte quelle situazioni nelle quali, in base al principio sancito dall'articolo 8 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo, ci sia un evidente rischio di violazione della vita privata e familiare, cioè in tutti i casi nei quali si deve riconoscere un percorso di inserimento sociale in Italia, un radicamento nella nostra società, dei vincoli familiari, ma anche sociali, la mancanza di appoggi e analoghi vincoli nel Paese di origine. Insomma, in tutte queste situazioni si devono rispettare i percorsi di vita delle persone, e questo è uno dei motivi non più di una "bonaria concessione", ma a tutti gli effetti uno dei motivi di riconoscimento del diritto alla protezione speciale».
C’è una zona poco chiara: con la cancellazione della protezione umanitaria imposta dai decreti Salvini, migliaia di persone erano finite fuori dai percorsi di accoglienza, in alcuni casi tornati in situazione di irregolarità e spesso senza più una casa. Che cosa succede ora? C’è una qualche forma di retroattività?
«Essendo di nuovo esteso l’ambito della protezione speciale, queste persone hanno diritto a vedersi riesaminare la loro posizione. C'è il problema di capire se sia opportuno l’inserimento di un emendamento a questa norma, che affronti le situazioni delle migliaia di persone che sono rimaste escluse, o se sarà sufficiente un riesame in via amministrativa. Certamente un riesame della posizione è indispensabile, perché abbiamo uno status nuovo che va riconosciuto al quale può conseguire anche il ripristino di misure di accoglienza. Quindi le due cose sono sono collegate».
Il nuovo decreto stabilisce anche che alcuni permessi di soggiorno sono convertibili in permessi per motivi di lavoro. Tra questi ritroviamo proprio le protezioni speciali, oltre a quelli per assistenza minori, residenza elettiva, calamità, acquisto dello stato di apolide o della cittadinanza, attività religiosa, sportiva o artistica. Che cosa significa questa conversione?
«Si può dire che sia figlia dello stesso ragionamento di prima, declinato in maniera diversa ma simile come ratio giuridica e come messaggio sociale e culturale. Se una persona si è trovata a vivere in Italia in una condizione particolare, per l'appunto con un permesso speciale, ma poi queste situazioni cessano, il percorso di vita che la persona ha radicato in Italia deve essere considerato. Quindi, se una persona vuole rimanere nel nostro Paese avendone però chiaramente le caratteristiche, cioè di poter rimanere sostanzialmente per lavoro, per studio o comunque per un inserimento socio-lavorativo, la norma glielo deve consentire. Questa conversione permette di uscire dal canale della specialità ed entrare in quello ordinario».
Come funzionava prima di questa modifica?
«Erano strade a senso unico che portavano sostanzialmente verso la fine del soggiorno, verso l’irregolarità, verso una situazione anche di evidente irrazionalità e disperazione per le persone che magari avevano costruito dei percorsi anche lunghi in Italia e che a un certo punto si vedevano dire “va bene, le esigenze sono cessate, grazie e arrivederci”. Questo tipo di approccio cambia proprio nell'impostazione».
A monte dell'accoglienza c'è ovviamente il discorso del salvataggio in mare. Qui si era discusso moltissimo su che cosa fare con le organizzazioni non governative che operano nel Mediterraneo.
In base ai “decreti sicurezza”, il governo aveva il potere di impedire l’ingresso nelle acque territoriali italiane a navi accusate di violare le leggi italiane sull’immigrazione, con multe che potevano arrivare fino a un milione di euro e alla confisca della nave. Il provvedimento di lunedì 5 ottobre non elimina le multe per le Ong, ma prevede che il divieto di ingresso nelle acque territoriali si applicherà solo se le navi impegnate nei soccorsi non avranno comunicato alle autorità italiane e a quelle del Paese di appartenenza le loro operazioni. Inoltre, le multe massime non potranno superare i 50mila euro e sono state eliminate le sanzioni amministrative che erano state introdotte, compresa la confisca della nave. È rimasto, per chi violerà il divieto di ingresso, il rischio di reclusione fino a 2 anni «nel caso in cui ricorrano i motivi di ordine e sicurezza pubblica o di violazione delle norme sul traffico di migranti via mare». Insomma, possiamo dire che su questo tema non si è messo in discussione il modello precedente?
«Questo è l'ambito nel quale il testo risente di più dei compromessi all'interno di una maggioranza abbastanza divergente negli approcci. Trovo giusto, legittimo e anche direi doveroso l'approccio critico che le Ong hanno nei confronti di questa riforma. Tuttavia, sia pure in una formulazione che è stata molto sofferta e anche piuttosto barocca, va detto che quell'impianto è sostanzialmente modificato, perché l'impedimento all'accesso e al transito nelle acque territoriali non può avvenire in caso di operazioni di soccorso, che sono comunicate alle competenti autorità di coordinamento. Certo, queste in estrema ipotesi potrebbero dare indicazioni di non procedere, ma in questo caso violerebbero il diritto internazionale in materia di soccorso in mare, che viene espressamente richiamato. In sostanza, l'amministrazione pubblica viene richiamata all'obbligo di rispettare un principio internazionale, quindi quello che dice la norma è che l'ente che effettua il soccorso non può operare senza il coordinamento o per conto proprio, ma viceversa, dall’altra parte, l'amministrazione non può decidere di aprire o chiudere i porti e lasciare le barche in mare a piacimento».
Mentre veniva approvata questa riforma, una persona migrante minorenne non accompagnata moriva dopo essere sbarcato d’urgenza dalla nave Allegra, dov’era tenuto in isolamento a causa delle misure di contenimento del coronavirus. Si chiamava Abou, e si trovava in isolamento dopo essere stato soccorso in mare, come previsto dalle leggi oggi in vigore. È un fatto potenzialmente traumatico. Potrebbe muovere qualcosa a livello politico?
«Direi di no. C’è stata la scelta abbastanza netta di ricorrere alle quarantene sulle navi, che trovo piuttosto criticabile. Non si può dire che sia illegittima, ma non si capisce per quale motivo sia necessario farlo sempre, come se non ci fossero posti disponibili. Questa tragedia mi sembra inserita anche nel fatto che questo ragazzo aveva paura, ancora percepiva il fatto che non era arrivato, che questa nave sarebbe magari ripartita in chissà quale direzione. È chiaro che per le persone che vivono un trauma come quello della traversata, in quelle condizioni, ritrovarsi segregati in una nave, soprattutto se l’organizzazione magari non ha comunicato in maniera chiara che questa è una situazione transitoria, insomma, dovrebbe essere concepita come una scelta particolare, non come una scelta ordinaria».
Possiamo pensare che queste modifiche normative rappresentino un punto di partenza per rivedere un sistema ancora molto restrittivo?
«Potrebbero esserlo per via di questi “segni culturali”. Dopodiché è chiaro che è soltanto un avvio, non solo perché le norme sull'immigrazione, sugli ingressi, sui soggiorni in generale non sono modificate, ma perché anche alcuni interventi invece, che avrebbero potuto essere fatti in questo decreto non sono stati fatti. In particolar modo la questione dell'accoglienza è una riforma parziale, perché ripristina l'accoglienza diffusa, ripristina l'ex Sprar, oggi chiamato Sai, come modello unico. Ma troviamo anche tutte le criticità di prima, una generale fragilità del modello. Come supereremo realmente i grandi centri? Come supereremo i CAS? Non è dato saperlo. C'è il rischio di una riforma in parte sulla carta, così come non sono state minimamente toccate parti dei “decreti sicurezza” assolutamente negative, relative all'uso e possibile abuso delle cosiddette procedure di frontiera. Era stato chiesto di intervenire anche su quello, ma qui la politica non ha sentito ragioni. Ci sono ancora temi che avrebbero dovuto essere affrontati nello stesso decreto, più tutti gli altri della riforma in generale, del diritto dell'immigrazione che è ormai una pagina logora del nostro ordinamento».