Bonfiglio Liborio la storia d’Italia nel Novecento vista da un “cocciamatte”
30 settembre 2020
Intervista a Remo Rapino, vincitore del Premio Campiello con il suo primo romanzo
Il 5 settembre il Premio Campiello ha vissuto la propria serata finale a Venezia. Vincitore è risultato lo scrittore abruzzese Remo Rapino con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio (ed. Minimum Fax, 2019), che è il suo primo romanzo, che racconta buona parte del sec. XX, a partire dal fascismo, attraverso la testimonianza di una sorta di folle, marginale eppure profondo conoscitore del mondo. Abbiamo potuto rivolgere alcune domande all’autore.
– Prof. Rapino, lei è stato il mio primo docente di Filosofia, nell’anno scolastico 1987/88. Ricordo, fra l’altro, quando, a proposito della storia medioevale e dei movimenti ereticali, sottolineava il senso etimologico dell’eresia: “scelta”, “scelta diversa”. L’eretico come “colui che sceglie”, “che sceglie diversamente”. Una scelta costata troppe volte sangue e persecuzioni. Una scelta, poi, che spesso porta a vivere l’esperienza del margine, della marginalità. Un’esperienza non estranea al cocciamatte del suo romanzo Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio. Anzi: egli la conosce bene, con l’emigrazione, con il manicomio, con tutta la sua vita. Persino la piazza, lo spazio pubblico per antonomasia, può rappresentare il luogo dell’“alterità”, dell’“eccentricità”.
«Nella vita si sceglie o si è scelti. Liborio fa l’uno e l’altro, tra “segni neri” e “cattiverie rivoltose”. Il personaggio racconta se stesso e, così facendo, racconta la storia di un secolo, di un Paese. Lo fa da una “periferia esistenziale”, eroe senza lapide, eroe della marginalità e la piazza è il suo regno. Un bel verso di De André (ispirato all’Antologia di Spoon River di E. L. Masters): “La luce del giorno divide la piazza tra il villaggio che ride e lo scemo che passa”. Io mi sono messo su quel lato della piazza per ascoltare Liborio, i suoi passi, la sua voce, e farlo parlare per dare voce a chi voce non ha, agli ultimi della fila. Perché le storie si scrivono non con i documenti, ma con le voci. A saperle ascoltare».
– Il cocciamatte tende a esprimersi proprio come pensa. Di solito si insiste sull’esigenza di non scrivere come si parla e di non parlare come si pensa. In tal modo, però, si rischia di fare della lingua scritta quasi una lingua morta. Lei, al contrario, con il suo romanzo prova a riannodare i fili fra le tre dimensioni.
«La ricerca di un immaginario letterario che si collegasse a una realtà fattuale è andata di pari passo sia sul piano della definizione psicologica del personaggio Liborio sia nella codificazione di un linguaggio adeguato. Un codice espressivo costruito sulla parlata gergale, su dialettismi e parole reinventate. In sintesi un modo di porsi rispetto al mondo, ingenuo eppure ricco di intuizioni profonde. Liborio ragiona e scrive come parla: una voce e una lingua che cammina nel mondo, un affabulare da ascoltare con la giusta attenzione, con un orecchio non distratto. Pure se è un cocciamatte. Un modello reale vero e proprio non esiste, ma esistono persone e luoghi dove ancora questo linguaggio si coltiva, a volte come un fiore raro. Il libro nella mia testa è già nato con quella voce, quella lingua, e insieme sono venute le cose da raccontare e il modo. Di certo la chiave di scrittura, ma anche di lettura per chi legge, è stata preminente. Una volta individuata, la storia ha assunto un flusso autonomo, arricchendosi, di volta in volta, con altri personaggi e altre situazioni. In ogni caso la modalità resta sostanziale».
– Prima parlavamo della marginalità. Lei, a proposito del libro, ha usato un’espressione felice ed efficace: “periferie esistenziali”. In esse la Grande storia, quella con la maiuscola, incontra le “piccole storie” di ciascuno di noi. Capita a volte che coloro che provano a esplorare la dimensione esistenziale degli esseri umani, gli aspetti più intimi, personali, profondi delle loro vicende, i risvolti nascosti e “privati” della loro vita siano inclini a trascurare, come dire?, le vicende pubbliche e politiche, in senso lato. Nel suo romanzo ciò non accade...
«Come canta Francesco De Gregori la storia la fanno “quelli che hanno letto un milione di libri” ma anche “quelli che non sanno nemmeno parlare”. Uno dei sensi del libro consiste nel tentativo di raccontare la storia di un secolo attraverso gli occhi, le parole, i ricordi di un “Fuorimargine”, l’ultimo della fila: questa la scenografia dove respirano i personaggi della storia, dove cantano le loro voci, che parlano di sogni mancati, di rimpianti, di viaggi e naufragi, di giorni andati, forse mal spesi, comunque vissuti. Liborio si muove dentro questo paesaggio: con il suo linguaggio, i suoi gesti, con la sua fragilità esistenziale. Così non può darsi un confine netto tra invenzione e memoria. In alcuni casi l’invenzione ha tratto dalla memoria contenuti, in altri la memoria ha contribuito a inventare… Spesso la microstoria può illuminare la grande storia (si pensi alla ricerca storiografica de Les Annales, al Carlo Ginzburg de Il formaggio e i vermi, alle Autobiografie della leggera di Danilo Montaldi, e altro ancora). Ci si può salvare solo unendo la voce di chi parla e quella di chi ascolta. È l’unica strada: non la più breve, ma la più giusta».
– Ciascuno di noi, ne sono convinto, è un po’ “vinto” e un po’ “vincitore”. Eppure ancora risuonano nelle mie orecchie due versi scritti da Pietro Ingrao, dall’Ingrao poeta: «L’indicibile dei vinti/ il dubbio dei vincitori». Che cosa pensa Remo Rapino al riguardo? E che cosa potrebbe pensare Bonfiglio Liborio?
«Viviamo, e forse da sempre, in un mondo di segni neri, ma non solo per Bonfiglio Liborio. Mondo di contraddizioni e ingiustizie spesso insopportabili, di distanze sociali, tra ricchezze e povertà, di mancanze, di valori umani offesi… Bisogna, allora, reagire uscendo dal proprio io per farsi un noi. Un’arma, di certo, resta la politica, intesa in senso nobile e largo, come difesa della polis, della comunità umana. In una parola: accettazione della diversità e accoglienza dell’altro da noi. La consapevolezza che non si possa fare a meno degli altri, una giusta ridefinizione dei valori, delle scelte morali, dell’amore per l’umanità. Il mondo straborda di Liborio. Le visioni e il disincanto, l’intima dolcezza dello sguardo, potrebbero essere viste come una forma di quella bellezza in grado di salvare il mondo, come dice il Principe Myškin (L’idiota di Dostoevskij). In tal senso questo libro è un libro d’amore. Liborio vive all’interno di una inconsapevole neurodiversità. La sua anormalità può essere vista anche come risorsa, possibilità di cambiamento. Liborio è, forse, infelice, ma non vuole essere felice come lo sono gli altri. La follia, ogni forma di follia, va vista anche come una imprevedibile emissione di energia, spesso incontrollabile, ma soprattutto sovversiva dei codici sociali dominanti. Oggettivamente Liborio è un combattente contro l’emarginazione, l’alienazione e la solitudine. Questa la sua Resistenza».