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Una legge che fermi le violenze

Omotransfobia, il dibattito può migliorare la cultura collettiva, lo Stato tuteli le vittime

Il dibattito in vista di un provvedimento che il Parlamento potrebbe assumere in materia di omotransfobia in parte si è avviato “al buio”, cioè senza avere sotto mano i testi dei relativi disegni di legge; e in parte si svilupperà nelle prossime settimane, secondo due direttrici che, grosso modo, lo influenzeranno: da un lato l’esigenza di tutelare le minoranze (in questo caso minoranze legate all’orientamento sessuale – in altri casi capita che si parli di minoranze etniche o religiose...); dall’altro l’esigenza di tutelare la libertà di espressione, la quale a sua volta rimanda alla libertà di coscienza, a cui tutti e tutte ci dichiariamo affezionati.

Il dibattito non sarà facile né indolore. Tuttavia qualcosa si può fare perché esso sia produttivo, dove produttivo significa non solo l’approvazione o meno di un testo di legge in tempi accettabili. Significa anche – così almeno dovrebbe essere in una democrazia “matura” – che una norma approvata a maggioranza rispecchia una presa di coscienza collettiva; ne è figlia; si richiama, cioè, all’esito di un confronto civile fra posizioni diverse, di cui qualcuno (il Parlamento) con fatica cerca la sintesi. Nel fare questo però c’è una dissimmetria da tenere presente: per tutti e tutte noi, oltre che per i parlamentari, si tratta di “discutere”, ma alcuni e alcune cittadini e cittadine vivono sulla propria pelle delle situazioni drammatiche, dal dileggio alle aggressioni fisiche. E dunque le convinzioni, i punti fermi, che chiunque matura nella propria coscienza possono essere variabili a seconda delle sensibilità, ma il rifiuto dell’incitamento all’odio e della marginalizzazione sociale è prioritario e deve essere garantito dalle Istituzioni.

La strada è stretta, anzi assomiglia a un sentierino di montagna. Ma vale la pena di essere percorsa, e deve andare anche al di là della legge che verrà promulgata: sarebbe ben triste che la consapevolezza e il rispetto delle minoranze, di tutti i tipi di minoranze, fosse praticata “solo” per evitare una sanzione (in questo caso, di natura penale). Se ci pensiamo, ognuno e ognuna di noi mette la cintura in auto non solo per evitare una multa salata ma anche e soprattutto per salvare la propria incolumità. Il rispetto e la tutela delle minoranze devono far parte della crescita di una collettività, e ciò richiede che ognuno svolga il proprio ruolo nel rispetto di quello altrui, a partire dall’educazione sessuale, nelle scuole ma non solo.

Qui dobbiamo fare i conti con un’altra, pesante dissimmetria: se parliamo di questioni sociali di grande rilevanza e coinvolgimento emotivo, come l’accoglienza, il razzismo, le minoranze nell’ambito delle sfere sessuale o religiosa, lo schieramento nei diversi “campi” (chi è più portato all’apertura e all’accoglienza – chi lo è meno) non si riduce alla semplice scelta di un’opzione invece che di un’altra. Perché non è simmetrico l’uso che si fa delle parole. Non per niente da anni si denuncia la pratica degli hate speech: i credenti e le credenti sanno che l’indicazione loro rivolta è «benedite e non maledite» (Rom. 14, 12), e così credo che tutti e tutte cerchiamo di fare. Spesso però verifichiamo che la situazione non è equilibrata: quando ci sforziamo di annunciare il bene, cercando con tutti i nostri limiti di rendere testimonianza all’Evangelo di Gesù Cristo, ci sentiamo poi impegnati a comportarci di conseguenza. L’Evangelo ci chiede di non limitarci alle parole. Invece chi proclama il male (e le aggressioni contro chi è ritenuto “diverso” per orientamento sessuale fanno parte di questo male)... fa già il male. La macchina del bene richiede di essere sostanziata da azioni coerenti, la macchina del male è già attiva, a pieno regime, con le parole di insulto e intimidazione. 

Per questo la posta in gioco è elevata, come lo è in materia di accoglienza. Le buone pratiche hanno dato in questi anni un grosso esempio del fatto che qualcosa si può fare. Ora ci viene chiesto di ragionare sulle parole: credo che anche in questo caso sia necessario partire dalla consapevolezza che la soluzione politica sta nelle mani di tutti e di tutte, e che la soluzione esistenziale passa anche attraverso il riconoscimento dei nostri limiti. Come credenti abbiamo un qualche vantaggio, sappiamo che la salvezza non è nelle nostre mani. Leggere la Bibbia per tutta la vita ci ricorda che la Parola di Dio è molto più grande di noi e che noi non possiamo impadronircene. Per questo cerchiamo di non assolutizzare le nostre prese di posizione e confidiamo nell’ascolto, cercando di convincere chi incontriamo – non solo “i politici” – a fare altrettanto e a migliorare le relazioni che ci permettono di vivere.

 

Foto di Elza Fiuza/ABr, manifestazione a ricordo delle vittime dell'omofobia

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