Per non dimenticare…
10 luglio 2020
Nel decennale della morte di Giorgio Alpi (papà di Ilaria Alpi) rilanciamo il nostro impegno: #NoiNonArchiviamo
Il 27 giugno scorso, dopo 40 anni, abbiamo ricordato la strage di Ustica.
Ho pensato ad alcune persone davanti alle immagini che in quei giorni hanno accompagnato telegiornali e servizi speciali; leggendo articoli ricostruzioni e commenti.
Ho pensato a tutti i famigliari e agli amici delle vittime, a Daria Bonfietti che, indomita, da sempre cerca di arrivare a conoscere che cosa sia davvero successo quella sera alle ore 20,59. A conoscere la causa del «danno collaterale» di una guerra non dichiarata (c’erano 21 aerei in volo quella sera attorno al DC9). Chi lo ha abbattuto facendolo precipitare in mare con tutte le 81 persone a bordo: lo vogliamo sapere. Qualche tempo fa Daria mi ha accompagnata a visitare il luogo dove è custodito l’aereo ricostruito con i resti recuperati. Tutti i dettagli dell’allestimento: le luci le voci i pannelli neri le storie di ogni vittima, la storia della tragedia e di questi 40 anni inducono emozione lacrime e insieme indignazione e voglia di verità, tutta la verità.
Ho pensato a Giorgio Alpi che ci ha lasciato dieci anni fa e alle parole che ripeteva ogni volta che parlava dell’esecuzione di Ilaria e Miran, avvenuta il 20 marzo 1994 a Mogadiscio: «[…] C’è un filo che collega tutte le stragi d’Italia; potremmo anche ripartire da Portella della Ginestra il primo maggio 1947 … da Piazza Fontana a Milano il 12 dicembre 1969, e poi Brescia, …Ustica, Bologna … fino alle stragi di mafia del 23 maggio 1992 (cinque vittime: Giovanni Falcone e Francesca Morvillo insieme agli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro) e del 19 luglio 1992 (sei vittime: Paolo Borsellino insieme agli agenti della scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina).
Ho pensato a Luciana Alpi che raccontava con un certo indignato riserbo che, quando chiese al Presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi di occuparsi di Ilaria e Miran, la risposta fu secca e burocratica, «Non si può perché: strage è con almeno tre morti».
Ho pensato a Ilaria in un’immagine particolare che mostra la sua stanza d’albergo senza di lei, quella domenica di marzo 1994. C’è Pier Paolo Pasolini con i suoi «scritti corsari» in mezzo a tante cose personali.
Ho pensato a Pier Paolo Pasolini e al suo «Io so. Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano… di Brescia e di Bologna (si riferisce a piazza Loggia 28 maggio 1974 e al treno Italicus notte 3/4 agosto 1974, ndr) … Io so i nomi del vertice che ha manovrato … Io so tutti i fatti di cui si sono resi colpevoli … Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace. … Io so ma non ho le prove».
Ho pensato ancora una volta che quel libro non era lì per caso e che in qualche modo ci deve guidare anche perché la stessa tragica morte di Pasolini non è mai stata chiarita e fin da subito emersero molte ombre, bugie e depistaggi.
Ho pensato che abbiamo l’obbligo di cercare ancora, provando a costruire quel filo di cui parlava Giorgio Alpi. Se riflettiamo con un po’ di profondità ci accorgiamo che il movente di ogni strage o delitto è chiaro, noto, e anche riconosciuto dalle istituzioni della giustizia; magari non subito ma col tempo sì. È altrettanto chiaro che arrivare a esecutori e mandanti è difficile anche quando non c’è un movente diretto, come per Ustica, ma c’è un movente per chi ha voluto e vuole nascondere che cosa ha provocato il «danno collaterale».
Ho pensato che dobbiamo chiederci e chiedere alle istituzioni della Repubblica: come mai non c’è una strage, un assassinio di cui abbiamo conosciuto gli esecutori e i mandanti? Perché?
Non sono solo domande lecite ma obbligatorie, così come le risposte, se non si vuole che tutti siano coinvolti in un’opera di occultamento o di «indifferenza» che continua a offendere la memoria di chi è morto e dell’intero Paese; risposte obbligatorie se si vuole illuminare la strada per ricostruire credibilità e fiducia nella giustizia seriamente ferita anche da comportamenti gravi di una parte dei suoi operatori.
Se andiamo a verificare caso per caso da lontano e da vicino ci accorgiamo che le modalità per occultare e/o inquinare prove, far sparire documenti, testimoni depistare, sono identiche.
Dovremmo forse puntare la nostra ricerca su questa «organizzazione speciale» che ritroviamo sempre e che forse sta in quel «mondo di mezzo» torbido che solo qualche volta si riesce a far emergere.
Chi sono, chi li dirige, chi li finanzia e che cosa hanno o vogliono in cambio.
Continuerò a cercare anche in questa direzione.
Guardando tutto ciò che è successo prima durante e dopo quella domenica maledetta e fino ai nostri giorni, questi giorni.
Ho pensato che l’esecuzione di Ilaria e Miran (con le sue modalità e nel contesto italiano somalo e internazionale) può considerarsi un esempio di come nei fatti concreti si è potuto non solo costruire bugie di ogni tipo e depistare fin dai primi giorni, ma far passare la menzogna come la verità e poterlo fare impunemente.
Sin dall’inizio si tentò di nascondere il fatto che fosse una esecuzione, verità ormai è scritta anche in sentenze della magistratura.
Si è occultato per anni il certificato di morte stilato sulla nave Garibaldi e al rientro, in Italia, del corpo di Ilaria non venne disposta l’autopsia ma solo un riscontro esterno, che sigilla: «Un colpo in testa sparato a distanza ravvicinata da arma corta, zona parietale sinistra…».
Autopsia sulla salma riesumata nel maggio 1996 che lo confermerà, con dettagli.
Miran Hrovatin, va ricordato, fu colpito da un analogo colpo alla nuca a destra.
Attraverso fantasiose perizie balistiche si costruì la storia del proiettile vagante che colpisce Miran, poi si infrange su una parte della macchina prima che un suo frammento colpisca Ilaria. È scritto in un rapporto dell’intelligence Unosom, a firma del suo comandante Colonnello Fulvio Vezzalini (poi promosso generale!) pochi giorni dopo il duplice assassinio; ripresa qua e là in tutti questi anni… anche dalla relazione di maggioranza della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria e Miran nel 2006.
Sta pure alla base delle plurime richieste di archiviazione avanzate dalla Procura di Roma.
C’È CHI HA RUBATO i block notes e alcune cassette videoregistrate.
C’È CHI HA VIOLATO i sigilli dei bagagli sull’aereo prima dell’arrivo a Ciampino.
C’È CHI HA MENTITO, costruendo carte false.
Insomma, in vario modo c’è chi ha depistato fin dai primi momenti dell’esecuzione per sostenere che non si era trattato di un’esecuzione; che Ilaria e Miran nulla avevano trovato né cercato di traffici illeciti di armi e di rifiuti tossici, ma si trattava di un tentativo di sequestro o di rapina finita male.
Tutto ciò emerge a chiare lettere dalla sentenza del Tribunale di Perugia (gennaio 2017).
Hashi Omar Hassan, accusato di concorso in omicidio plurimo, dopo 17 anni di carcere è stato rimesso in libertà, per non aver commesso il fatto: un capro espiatorio visto che il principale teste d’accusa Ahmed Ali Rage, detto Jelle, ha dichiarato il falso risultando coinvolto in un’attività di depistaggio di ampia portata fin dai primi giorni dell’agguato mortale e non solo per episodi relativi alla condanna di Hashi Omar Hassan.
Depistaggio che forse è ancora in atto (come trapela nella stessa sentenza e nella opposizione alle richieste di archiviazione).
Ho pensato che ricordare Giorgio Alpi nel decennale della sua morte significa proseguire nel suo impegno insieme a quello di Luciana.
Lo salutiamo con le parole che Roberto Morrione gli dedicò alla sua morte. Era un’assolata domenica: l’11 luglio 2010.
«Se n’è andato con discrezione, dopo una lunga malattia affrontata con coraggio e in silenzio, portando con sé l’amore di Luciana e l’ultimo sorriso di Ilaria.
Non dimenticheremo Giorgio Alpi, il dolore, la dignità, l’orgoglio che ha trasfuso in 16 interminabili anni per onorare quella figlia partita un giorno per la Somalia e mai più tornata. Sedici anni affrontati da Giorgio e Luciana, sempre insieme, spalla a spalla, per avere piena luce su quell’agguato nelle strade di Mogadiscio che spense la vita di Ilaria e di Miran Hrovatin, uccisi mentre si apprestavano a diffondere dal Tg3 la verità acquisita con il loro lavoro di cronisti».
E noi, che come Giorgio Luciana e Roberto amiamo verità e giustizia, rilanciamo il nostro impegno, perché #NoiNonArchiviamo
L'autrice dell'articolo è la portavoce della Campagna #NoiNonArchiviamo, già parlamentare e presidente dell’Associazione Ilaria Alpi.