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Cosa succede in carcere?

La nuova edizione del rapporto di Antigone sulla detenzione è segnato da una frattura, quella della crisi sanitaria che sta cambiando il mondo, anche quello meno visibile

Come per il mondo “fuori”, anche nelle carceri esiste un “prima” e un “dopo” lo scoppio della pandemia di COVID-19.

Questa netta linea di separazione si riflette nell’edizione 2020 del Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, presentato lo scorso 22 maggio. Quando la crisi sanitaria ha cominciato a far parlare di sé, e ancora di più con l’adozione di misure d’emergenza e di distanziamento sociale, si è presto capito che luoghi in sé fragili come le carceri sarebbero stati particolarmente a rischio. Proprio per questo, l’associazione Antigone, che a fine febbraio aveva completato la preparazione del rapporto 2020, ha deciso di rimetterci mano per raccontare anche questa profonda trasformazione.

Prima della pandemia era evidente una tendenza cominciata nel 2015 e mai interrotta, quella della crescita della popolazione detenuta, in totale assenza di una parallela crescita dei reati e della criminalità in generale.

«A fine febbraio – recita il rapporto – i detenuti erano 61.230 a fronte di una capienza regolamentare di 50.931 posti. Le donne in tutto erano 2.702, il 4,4% dei presenti, gli stranieri 19.899, il 32,5%». Questi numeri si traducono in un tasso di affollamento ufficiale del 120%, con due sole regioni (Sardegna e Trentino-Alto Adige) sotto la soglia del 100%. Quando si dice “ufficiale”, inoltre, va tenuto conto che i posti effettivamente disponibili sono circa 4.000 in meno, portando quindi il tasso di affollamento effettivo intorno al 130%.

Al netto delle cifre, una simile pressione sul sistema carcerario portano a condizioni di vita particolarmente difficili, anche da un punto di vista igienico-sanitario, come raccontato proprio dal rapporto nelle sue prime pagine, «In 25 delle 98 carceri visitate da Antigone nel 2019 abbiamo trovato celle in cui non era nemmeno rispettato il criterio dei 3 mq per detenuto. In 14 istituti visitati le celle più affollate ospitavano 5 detenuti, in 13 c’erano celle da 6, in due istituti c’erano celle da 7, in 5 c’erano celle che ospitavano anche 8 persone ed in 3, Poggioreale, Pozzuoli e Bolzano, c’erano celle che ne ospitavano 12 contemporaneamente». «In 45 istituti visitati, circa la metà, c’erano inoltre celle senza acqua calda per lavarsi e in 52, ben più del 50%, c’erano celle senza doccia, cosa che costringe i detenuti ad usare docce comuni. In 8 istituti tra quelli visitati c’erano celle in cui il wc stava a vista nella cella, anziché in un ambiente separato. Tutto questo può lasciar immaginare le difficoltà della vita in carcere anche da un punto di vista igienico e le ovvie conseguenze per la diffusione delle malattie infettive».

Quanto è arrivato il COVID-19, in effetti, in molti hanno temuto che le carceri potessero essere teatro di un inevitabile disastro senza. Tuttavia, racconta Susanna Marietti, Coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone, «per adesso non c'è stata una tragedia penitenziaria come quella che potevamo temere rispetto al virus. Abbiamo avuto all'interno un tasso di contagi decisamente più alto rispetto a quello della popolazione libera, quindi non è vero che “il carcere è il posto più sicuro del mondo”, come si sente dire. Però le misure adottate sono state attente, precise e si è riusciti a circoscrivere i vari focolai». Quello più temibile, che era apparso al San Vittore di Milano, nella regione più colpita d’Italia, è stato circoscritto con l'aiuto della ong Medici senza frontiere, che si è resa disponibile, ha cominciato a lavorare in carcere giorno e notte e ha isolato il focolaio. Anche il carcere di Torino è entrato presto in crisi. «A Torino ancora la situazione non è del tutto fuori pericolo, però il numero dei detenuti positivi o del personale positivo non è fortunatamente esploso».

All’inizio della pandemia, proprio mentre il governo diramava i primi ordini di chiusura delle attività e invitava i cittadini a non uscire, applicando regole di distanziamento sociale, quasi tutte le carceri italiane sono diventate luoghi di protesta. Sui social network e nei principali organi d’informazione circolavano immagini di detenuti sui tetti, fumo dalle finestre delle celle e file di familiari riuniti davanti al carcere. Era l’8 marzo e le rivolte, costate la vita a 13 persone, erano sembrate sin da subito un punto di non ritorno. Come racconta l’associazione Antigone, «Rivolte e proteste sono state seguite dai trasferimenti. Molte persone sono state portate da un carcere all'altro, da una regione all'altra: perché le sezioni erano ormai distrutte, o per sparpagliarli un po’, evitando nuovi disordini. Alcuni hanno portato con sé il virus a Tolmezzo e in altri posti».

Tuttavia, la maggior parte delle proteste non ha mai assunto la forma più vistosa, ma è stata portata avanti attraverso lettere, incontri con i magistrati di sorveglianza e con il digiuno.

Alla base delle proteste, tanto quelle più violente quanto quelle pacifiche, un fattore comune: la paura del contagio in un luogo insalubre e sovraffollato, l’impossibilità di comunicare con il mondo “fuori” se non attraverso sporadiche telefonate e la scomparsa delle attività educative e lavorative, tra le poche a poter riempire il tempo in carcere, che si fa più vuoto man mano che lo spazio fisico si fa pieno, senza alcuna possibilità inoltre di distanziamento sociale. Tuttavia, quando le rivolte sono terminate, il carcere è tornato invisibile. «È un grande classico del carcere – spiega Susanna Marietti – se non quando ci sono eventi eclatanti. Ci interessiamo di carcere quando c'è la rivolta, quando c'è l'evasione quando è detenuto in misura alternativa che commette un altro reato, ma poi le decine di migliaia di persone che vanno in misure alternative e si comportano bene oppure il carcere di ogni giorno che è quella scatola nera che vediamo nelle nostre città, ci passiamo davanti senza chiederci mai cosa succede là dentro non fa notizia e non va sui grandi media. Questo è successo anche nel tempo delle rivolte».

Nel “dopo” lo scoppio della pandemia emerge un numero importante: 9.000 persone detenute in meno in appena tre mesi. Segno di una nuova tendenza in corso? A quanto pare no. «temo di essere facile profeta – ricorda la coordinatrice nazionale di Antigone – nel dire che tornerà tutto come prima, perché questo calo è stato dovuto a tre fattori diversi. Il primo è stato un calo negli ingressi in carcere, perché con il lockdown ovviamente si sono commessi meno reati, il furto del portafogli per strada non c'era. Il secondo motivo sono le misure contenute nel decreto cosiddetto "Cura Italia" agli articoli 123 e 124, che prevedevano una semplificazione della concessione della detenzione domiciliare per alcune categorie dei detenuti, quelli con fine pena vicino, e la possibilità di dormire a casa per chi è in semilibertà, cioè quei detenuti che escono di giorno, seguono un programma e tornano la notte a dormire in carcere. Queste sono misure a tempo, quindi finiranno e si tornerà come prima. Il terzo fattore è stato un'accelerazione virtuosa della magistratura di sorveglianza, che ha capito il dramma della situazione che si avvicinava, e che, a legislazione invariata, anche prima del 18 marzo e del Cura Italia, ha applicato con molta più velocità, con molta più solerzia le norme precedenti. Tra queste l'incompatibilità del carcere per motivi di salute, oppure la detenzione domiciliare nell'ultimo periodo di pena. Ma questi tre fattori andranno a scemare, non vedo perché dopo tanti anni di crescita si debba pensare diversamente».

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