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Un piatto vuoto che diventa pieno

In diverse parti del mondo la Chiesa metodista unita ha attuato o incrementato iniziative per far fronte all’emergenza alimentare, aggravata dal Covid

La crisi portata dall’epidemia Covid-19 ha acuito i problemi delle persone meno abbienti: ne abbiamo parlato in più occasioni in questi mesi, a proposito delle condizioni di lavoro e di vita, della mancanza di risorse economiche, dell’isolamento, e diverse chiese e organizzazioni di volontariato, in diversi paesi, si sono impegnate per “tamponare” queste situazioni, o piuttosto hanno continuato a impegnarsi. Per molte si tratta infatti di un lavoro di anni, non di un’emergenza temporanea. In un certo senso hanno lavorato preparandosi, senza saperlo, ad affrontare la crisi Covid-19, come racconta la Chiesa metodista unita (Umc) in questo articolo sul Cumac, un programma nato negli anni Settanta nel New Jersey per “alleviare la fame e le sue radici”, a partire dalle scuole. Il progetto nacque infatti per iniziativa di un insegnante, Hugh Dunlop, che coinvolse la propria chiesa nel compito di venire incontro alle carenze, che man mano si scoprivano più profonde, della popolazione della città di Paterson. L’iniziativa prese il nome di Cumac-Echo, ossia Center of United Methodist Aid to the Community Ecumenically Concerned Helping Others, ingrandendosi fino ad avere, oggi (si legge sul sito dell’organizzazione), uno staff di 21 persone e centinaia di volontari, in una situazione che non è certo migliorata rispetto agli anni Ottanta: oggi l’organizzazione, il più ampio programma di distribuzione di cibo della contea di Passaic, assiste ogni mese più di 2500 persone, più altre 1900 con un sostegno integrativo. Uno su 3 è un bambino, uno su 6 è una persona disabile, uno su 8 è un anziano. Negli ultimi tre mesi ha visto un aumento della propria attività, arrivando a 3297 persone assistite in aprile, e la stima è di arrivare a 3600 in maggio. E parliamo solo della distribuzione di generi “in prima linea”, non delle consegne a casa o dell’assistenza a famiglie e ospedali.

Il New Jersey è lo Stato americano più colpito dal Covid (dopo New York), al 18 maggio c’erano stati 10.439 morti, ma se pare che il trend di nuovi casi sia in calo, le conseguenze economiche e sociali si faranno sentire ancora a lungo: secondo il Programma alimentare mondiale (Wfp), quest’anno il numero di persone a rischio alimentare potrebbe raddoppiare rispetto al 2019, raggiungendo i 265 milioni nel mondo.

L’impegno per la “sicurezza alimentare” è un caposaldo dell’attività della Umc, che ha creato (tre le altre cose) un fondo di sostegno per le popolazioni più vulnerabili in varie parti del mondo, tra cui l’Europa (per esempio l’area dei Balcani). La Umc è presente anche in molti paesi africani e qui, per esempio in Congo, si trova ad affrontare una minaccia più forte e concreta del Covid, quella della fame: secondo il rapporto del Wfp 2020 sulle crisi alimentari, il Paese è tra i dieci che hanno dovuto affrontare quelle peggiori nel 2019, e i pastori stessi, soprattutto nelle aree urbane, come rileva un altro articolo della Umc, sono in gravi difficoltà e possono sopravvivere grazie all’utilizzo dei proventi dei campi di proprietà delle chiese, che in altre circostanze sarebbero serviti come fonte di finanziamento delle chiese.

Situazioni critiche anche in Mozambico, Uganda, Kenia e Zimbabwe: qui, un centinaio di studenti internazionali dell’Africa University di Mutare, impossibilitati dal 24 marzo a rientrare nelle loro case a causa del lockdown, hanno deciso di aiutare le comunità vicine, rinunciando al pranzo e chiedendo all’università di acquistare con i soldi risparmiati il cibo per le famiglie bisognose. E ci sono altri esempi di solidarietà, raccolte di denaro e beni di prima necessità fra i giovani.

Come, per tornare negli Stati Uniti e in particolare in Florida, in una delle comunità più colpite dalle derive xenofobe portate dalla crisi Covid-19, quella asiatica, l’iniziativa della chiesa metodista coreana di aprire un banco alimentare. Un progetto a lungo sognato, si legge, che dopo un lungo iter è diventato realtà in gennaio. E poi è arrivato il virus che ha cambiato tutto, trasformando l’iniziativa in un “drive-in”: senza scendere dalle proprie auto, le persone vengono servite a seconda delle necessità familiari: dalle prime 320 si è passati a 540, tanto che lo sceriffo della contea ha dovuto inviare degli agenti per dirigere il traffico di auto, in attesa fin dalle 5 del mattino.