Il rapporto con l’«altro» nelle Scritture
26 maggio 2020
La concezione dello straniero e della condizione dell’esilio in una recente pubblicazione di Piero Stefani
Una piccola pubblicazione del biblista Piero Stefani* ci aiuta a riflettere sul tema dell’accoglienza dello straniero. La riflessione prende le mosse dall’idea che l’«appello ai valori cristiani intesi come motivi ispiratori per operare nella società alimenta, in questi ultimi anni, opzioni contrapposte» (p. 5). Opzioni contrapposte già presenti nelle pagine bibliche perché «non ogni “altro” si presenta a noi allo stesso modo» (p. 7).
Stefani registra che ai nostri giorni il terreno sul quale più si è manifestata la divaricazione tra motivi ispiratori cristiani è costituito dall’accoglienza. La pubblicazione si divide in due parti. Nella prima viene descritto lo sforzo del popolo d’Israele nella costruzione della propria identità dopo il ritorno in patria dall’esilio Babilonese (VI–V sec. a.C.). Sono soprattutto Esdra e Neemia a presentare la società giudaica che si organizza dopo il rimpatrio dei deportati: momenti non privi di tensioni sia interne sia esterne. In questa situazione la voce di Dio perviene al popolo attraverso la Torah.
Si crea così una identità chiusa e separata da quella degli “altri”. «La salvaguardia esilica della propria identità, affermatasi in mezzo ad altre popolazioni, viene ora applicata all’interno del proprio territorio» (p. 21). Così, in età post-esilica, si forma «un’identità ebraica non estendibile ad “altri”» (p. 24). In verità nella stessa epoca di Esdra e Neemia ci furono voci rivolte nella direzione opposta all’espulsione delle mogli straniere e dei loro figli. Una di queste voci è rappresentata dal Libro di Rut, una donna moabita, quindi straniera, presentata come antenata del re Davide e quindi del Messia.
Nella seconda parte del libro l’autore ritiene importante «valutare se in “principio” vi fosse solo l’unità del genere umano o se, al contrario, sussistesse già la pluralità dei popoli. In altri termini, l’esistenza dello straniero è da ascriversi alla dimensione della caduta che ha infranto un’originaria unità umana, o può rientrare nella benedizione fatta scendere da Dio sul moltiplicarsi delle sue creature?» (pp. 33-34). Ricordiamo che i patriarchi furono stranieri tra le genti, poi Israele lo fu in Egitto, infine qualcuno fu straniero in mezzo al popolo ebraico. È soprattutto l’esperienza di essere gher (straniero), cioè minoranza a volte perseguitata e oppressa a diventare il tratto comune dell’intero popolo d’Israele. Ma Israele, straniero tra i popoli, si percepisce tale anche dinanzi al suo Signore. Giunto nella terra promessa, il popolo d’Israele non è più gher in mezzo ad altre genti, «in quanto è egli stesso a ospitare forestieri nel proprio seno» (p. 40); Israele diventa luogo di residenza di gherimprovenienti anche da altri popoli. Pur risiedendo presso il popolo, il gher non gode degli stessi diritti del figlio d’Israele, a lui non spetta alcuna parte del territorio, gode, però, del diritto di spigolatura (Lv19, 10) essendo annoverato tra i poveri. Le condizioni di fragilità proprie del gher attirano su di lui la protezione divina (Dt 8, 3-4). Un’attenzione per lo straniero da parte di chi ha già vissuto una tale condizione: «Amate dunque il gher poiché anche voi foste gherim nel paese di Egitto» (Dt 10, 19; cfr. Es 22, 20; 23, 9; Dt 24, 17). «Tratterete lo straniero, che abita fra voi, come chi è nato fra voi; tu lo amerai come te stesso; poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto. Io sono il Signore vostro Dio» (Lv 19, 34). Se è vero che altrove si afferma che il gher può celebrare la Pasqua (Nm 9, 14), compiere i sacrifici (Lv 17, 8), osservare le prescrizioni di purità (Lv 17, 15-16; 18, 26) si comincia ad assistere a un processo di “normalizzazione” dello straniero, che attenua, progressivamente, il suo essere portatore di “alterità”. La traduzione dei LXX della Bibbia ebraica renderà la parola gher con proselytos (proselito). «“L’alterità” sembra lasciar posto a un’accoglienza orientata sempre più marcatamente verso l’assimilazione» (p. 49). Nei vangeli la categoria del gher è riservata ancora ai goyim, le genti o i gentili.
Il vangelo di Matteo fa dire a Gesù che il buon annuncio va rivolto solo «alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 10, 16; 15, 24). Con la sua resurrezione, Gesù invece chiede ai suoi discepoli di ammaestrare tutte le genti e di battezzare coloro che accolgono il buon annuncio (Mt 28, 19). E la Lettera agli Ebrei, richiamandosi alla figura di Abramo (cfr. Gen 18, 1-21), scrive: «Non dimenticate l’ospitalità; perché alcuni praticandola, senza saperlo, hanno ospitato angeli» (Eb 13, 2), oltre al sempre citato: «ero forestiero e mi avete ospitato…”» (Mt 25, 31ss). «Trascritto in termini contemporanei ciò significa che la debolezza e il bisogno sono rivestiti di una tale dignità da escludere ogni strumentalizzazione, specie quella devota che si propone di servire Cristo nei poveri» (p. 53).
* P. Stefani, Società chiusa e società aperta nella Bibbia. Brescia, Morcelliana, 2020, pp. 64, euro 8,00.