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Non una guerra, ma una sfida

Ciò che ci verrà chiesto dopo la fine dell’emergenza sarà un vero e proprio “gioco di squadra”. Servirà rivalutare la fatica e la capacità di utilizzare le risorse che abbiamo a disposizione

Davvero basta. Basta metafore guerraiole, basta linguaggio militare. La guerra immagino sia un’altra cosa, per quanto io non la conosca.

Questa è una sfida e noi siamo chiamati non a difenderci da un nemico o, viceversa, ad attaccarlo. Siamo chiamati alla più grande sfida della nostra generazione e non possiamo scegliere se accettarla o meno, non possiamo decidere di giocare oppure no questa partita. Siamo chiamati a muoverci in un contesto del tutto nuovo e allora, per forza o per amore, meglio raccogliere questa sfida pensando e agendo come una squadra. Perché questa sfida, è evidente, non finirà certamente con l’emergenza sanitaria. Anzi, questo è il momento in cui, tutto sommato, è facile accettare questa sfida: basta rispettare le regole, restare chiusi in casa. C’è di peggio.

La sfida vera, quella che ci vedrà protagonisti attivi, inizierà proprio alla fine dell’emergenza sanitaria, quando sarà conclamata l’emergenza economica e quando il rischio sarà quello del manifestarsi di enormi tensioni sociali. In quel momento eccome se si dovrà pensare collettivamente. Insomma, la partita è iniziata da poco e potrebbe essere utile trarre ispirazione al mondo dello sport per gestire il presente e preparaci al futuro. Una delle grandi riflessioni che ci aspettano, per esempio, è quella di identificare quali saranno le capacità richieste a chi, in un prossimo futuro, guiderà i processi.

Quali caratteristiche di leadership saranno necessarie per rimettere in piedi il nostro Paese, dopo l’enorme tributo di vite umane pagate e il tracollo dell’economia del nostro Paese? 

Leadership o coaching?

Serviranno leader? Allenatori? Gestori di risorse? La competenza, grazie al cielo, tornerà di moda? Dopo anni in cui l’incompetenza è diventato un valore ci affideremo ai tecnici, agli esperti? E allora, per nemesi, saranno politici incompetenti e burocrati a sparire? Faccio domande, ma non ho risposte. Giusto qualche personale idea che mi viene alla mente pensando al ruolo che conosco, quello dell’allenatore. È un allenatore chiunque abbia a disposizione delle risorse umane, chiunque abbia il compito di costruire squadre e di orientarle verso obiettivi comuni. Si utilizza spesso, anche nel mondo dell’impresa, il termine coaching per individuare quell’arte necessaria a trasformare una “collezione di individui” in una squadra. È un processo magico, che non sempre e non automaticamente funziona, ma che passa attraverso tre concetti imprescindibili: l’arte di essere esemplari, l’abilità di esaltare i punti di forza (non solo il talento dei propri atleti, ma anche le competenze specifiche dei propri collaboratori) e la capacità di spostare in avanti i limiti, di avere una visione, insomma.

La squadra è il luogo in cui ogni individuo mette a disposizione i propri punti di forza per un superiore interesse comune e allo stesso tempo scopre, condivide e accetta l’idea che sarà il lavoro collettivo a realizzare anche i propri sogni individuali. Credo, in un prossimo futuro, servirà questo. Leader capaci di avvalersi delle competenze, mettendosi al servizio di una visione e cittadini capaci di pensare al plurale. Avrebbe dovuto già essere così? Sì, ma così non era. 

E così non è.

Mentalità vincente, ‘egoismo’ di gruppo.

Servirà una rinnovata mentalità vincente, che altro non è che questione di allenamento a questo senso di pluralità e appartenenza. Anche alle spalle di quelle che possono apparire come le più individuali delle attività, si scopre sempre il lavoro di tante persone che hanno svolto con cura e in modo meticoloso il proprio compito. Magari non hanno mai avuto modo di essere gratificate per ciò che hanno fatto, ma se si innesca in loro la consapevolezza dell’essere stati decisivi per la vittoria finale, svolgendo per bene il proprio lavoro, anche se umile e quasi invisibile, nasce quel senso di appartenenza che chiamo “egoismo di gruppo”. È una sorta di ossimoro che è però alla base delle grandi imprese, soprattutto quelle in cui si ribalta il pronostico e si vince da sfavoriti.

Realizzare il potenziale.

Già Machiavelli sosteneva, attraverso la metafora dell’arciere, che se noi vogliamo colpire il centro di un bersaglio occorre mirare più in alto del centro stesso. Se così facciamo perfino il vento contrario diventerà un nostro alleato per centrare l’obiettivo. Quel mirare alto, quel desiderare ciò che sembra impossibile, è lo strumento più prezioso che noi abbiamo a disposizione: è il nostro tesoro. Diventiamo donne e uomini “vincenti” non quando spolveriamo coppe e trofei di vecchie competizioni vinte, ma quando abbiamo la sensazione di aver usato tutte le nostre risorse a disposizione e di aver espresso la totalità del nostro potenziale. Allora le “vittorie sul campo” saranno una conseguenza. 

Il metodo, l’atteggiamento, la fatica.

Non ci sono metodi infallibili, ma ce n’è uno efficace, il più semplice di tutti. Si fonda su due parole chiave delle quali fra poco, superati questi tempi di burrasca, dovremmo riappropriarci: l’atteggiamento e la fatica.

L’atteggiamento, perché seppure la pandemia spazzerà finalmente via quel tragicomico valore dell’incompetenza, non saranno sono solo le competenze tecniche a fare la differenza, ma il modo in cui ciascuno di noi svolgerà il proprio compito. 

La fatica, una parola alla quale occorrerà restituire dignità, sulla quale si fonda l’idea stessa di lavoro e, di conseguenza, il primo articolo della nostra Costituzione. La fatica, unica vera medicina di questo mondo andato in crisi.

In conclusione.

Andrà tutto bene. Anzi, andrà tutto bene? Sì, se avremo la capacità di non dimenticare. Le grandi crisi non sono (sempre) opportunità, ma sono (sempre) accelerazioni. E quindi basta parlare di guerra e basta, anche, parlare di resilienza. Se saremo resilienti, ovvero se testardamente supereremo questo tsunami tornando esattamente uguali a prima, beh allora avremo un gigantesco problema. Al contrario sarà decisivo essere “antifragili”, secondo la definizione del saggista libanese Nassim Nicholas Taleb. 

Superare il problema certo, ma essendo capaci di cambiare noi stessi all’uscita dal problema, di modificarci. 

Andrà tutto bene solo se sapremo ricordare quello che era il prima e se avremo la forza, individualmente e collettivamente, di non essere più quelli che eravamo prima.  

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