Gradisca d’Isonzo, chi è Stato?
23 gennaio 2020
La morte di un “ospite” del Centro di permanenza per il rimpatrio in provincia di Gorizia va chiarita come fatto di cronaca, ma impone domande sull’intero sistema di trattenimento dei cittadini stranieri
Quando una persona muore mentre si trova in custodia dello Stato non è possibile circoscrivere il fatto alla cronaca, ma è necessario estenderlo alla politica.
La vicenda di Vakhtang Enukidze, un cittadino georgiano di 38 anni deceduto lo scorso 18 gennaio nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca d'Isonzo, in provincia di Gorizia, non fa differenza. Nelle prime ore dalla morte erano state numerose le ipotesi, ma le visite condotte dal deputato radicale Riccardo Magi e dal vicepresidente di Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione), il giurista Gianfranco Schiavone, hanno fatto emergere una storia diversa rispetto a quella iniziale. «Le persone trattenute – racconta Schiavone – ci hanno raccontato che non c'è stata alcuna rissa mortale. Ci sono state delle colluttazioni tra il cittadino georgiano e un altro trattenuto, è vero, ma non è stato questo il motivo che ha portato alla morte. Le lesioni di cui si parla non possono essere ricondotte a questi fatti perché si trattava di aspetti veramente minori, né possono essere ricondotti ad atti di autolesionismo. Una decina di trattenuti hanno riferito del durissimo pestaggio da parte della polizia nell'occasione della separazione tra il georgiano e l'altro trattenuto con particolari molto molto circostanziati e molto precisi che ci hanno fatto ritenere necessario dover riferire pubblicamente e richiedere un'inchiesta».
La morte di Vakhtang Enukidze, oltre a dover essere chiarita, impone alcune domande sullo stato del Cpr di Gradisca d’Isonzo e delle altre strutture sul territorio italiano. «Nel centro – spiega il vicepresidente di Asgi – c'è una situazione da autentico girone infernale. Le persone che abbiamo incontrato stanno in uno stato di assoluto degrado e di assoluta violenza. La struttura, pur essendo aperta solo da un mese, è già in evidente stato di degrado ed è stata fatta una scelta di gestione assolutamente sconsiderata a mio avviso, cioè fin dal primo giorno non sono stati attivati degli spazi comuni, né la mensa né lo spazio esterno». Questo significa che le persone sono costrette a vivere dentro le gabbie per 24 ore su 24, in contrasto con la normativa, che prevede che gli spazi possano essere chiusi soltanto temporaneamente e soltanto in caso di problemi di ordine pubblico. «La Prefettura di Gorizia – prosegue – ha fatto la scelta di non aprirli mai, ha fatto la scelta di trasformare un luogo già di per sé mal strutturato e privo di spazi in un luogo estremo». Inoltre, le associazioni esterne non hanno acceso alle strutture, e questo fa sì che manchi completamente il monitoraggio indipendente delle condizioni del trattenimento amministrativo a cui sono sottoposti i cosiddetti “ospiti”.
Il caso di Gradisca è soltanto l’ultimo capitolo di una storia molto più ampia, e che riguarda tutte le strutture di trattenimento per persone straniere aperte e trasformate negli ultimi vent’anni, ovvero dall’istituzione degli allora Cpt (Centri di Permanenza Temporanea) nel 1998 con la legge Turco-Napolitano, poi diventati Cie (Centri di Identificazione ed Espulsione) nel 2008 con il cosiddetto “pacchetto sicurezza” e infine trasformati in Cpr nel 2017, quando il ministro degli Interni era Marco Minniti. Negli anni, le condizioni sono peggiorate in modo costante: quando vennero create nel 1998, il trattenimento delle persone straniere da identificare o in attesa di espulsione non poteva andare oltre i 30 giorni. Con l’istituzione del reato di clandestinità nel 2009, la permanenza nei centri venne estesa fino a un massimo di 12 mesi, anche in assenza di reato. Secondo Gianfranco Schiavone «siamo di fronte all’utilizzo di questi luoghi come “contenitori indifferenziati”».
Nei Cpr finisce qualunque persona che non ha un permesso di soggiorno, è irrilevante che abbia alle sue spalle un percorso, anche magari di criminalità o di pericolosità sociale, oppure sia semplicemente uno straniero che per vicissitudini della vita, o lavorative, perde il permesso di soggiorno. «Nel Cpr – prosegue – abbiamo trovato le stesse persone che negli anni scorsi incontravamo dei Cie, persone che parlavano italiano meglio di me e che vivono in Italia da anni. Non è solo una follia giuridica, ma anche incompatibilità con il sistema democratico di queste strutture, con l'assoluta mancanza di proporzionalità, di chiarezza sui diritti delle persone trattenute, di un organo di controllo sullo stato dei diritti dei trattenuti. C’è un problema anche di concezione stessa della struttura che ha molti meno servizi all'interno e molti meno spazi di un carcere di massima sicurezza». Inoltre, il superamento del sistema strutturale Sprar con il Decreto Salvini del 2018 ha reso ancora più serio il problema del sovraffollamento, deteriorando in modo ulteriore le condizioni del trattenimento.
Il piano Minniti prevedeva l’apertura di Cpr in ogni regione, con lo scopo dichiarato di rendere più capillare il sistema ed evitare fenomeni di sovraffollamento. Tuttavia, al momento dell’adozione del Decreto legge del 2017 i Cpr operativi erano solo quattro: Torino, Roma-Ponte Galeria, Caltanissetta e Brindisi. Oggi le strutture sono 9: a quelle già presenti nel 2017 si sono aggiunte Trapani, Bari, Palazzo San Gervasio (Potenza), Macomer (Nuoro) e appunto Gradisca d’Isonzo, nello stesso luogo che già ospitava un Cie. «È cambiata solo la sigla», prosegue Schiavone. «Non sono cambiati i presupposti normativi che portano le persone al Cpr, non è cambiata la norma secondaria che regola la gestione di questi centri, cambiano nel tempo, perché si allungano o si accorciano, solamente i tempi di detenzione, che sono sicuramente un elemento importante ma non determinante. La sostanza non è mai cambiata ed è una responsabilità che si trascina da un tempo incredibile e che ha attraversato sostanzialmente tutti i governi».