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É passato un anno dal rapimento di Silvia Romano

«A Chakama, dove fu rapita, non si tengono più riunioni, incontri e preghiere collettive per sollecitarne la liberazione. I testimoni hanno paura»*

Lunedì la Procura di Roma, titolare delle indagini sul sequestro, ha diffuso un comunicato in cui si afferma che Silvia Romano è prigioniera in Somalia di un gruppo islamista molto vicino agli al Shabaab, i terroristi legati ad Al Qaeda.

In sintesi, la giovane volontaria sarebbe stata rapita da una banda di criminali comuni del Kenya (ma di origini somale) su commissione degli integralisti che controllano quasi l’intera Nazione, che dal 1991 è squassata dalla guerra civile e dal terrorismo.

I contatti tra i due gruppi sarebbero confermati da intercettazioni telefoniche intercorse tra Somalia e Kenya nei giorni successivi a quel drammatico 20 novembre 2018 (data del rapimento) e anche dall’abbondanza di mezzi di cui avrebbero usufruito i criminali per portare a termine l’azione, messi a disposizione dai terroristi. Da allora, però, nessuna rivendicazione che avrebbe «illuminato» il crimine e dato visibilità agli ispiratori.

Ufficialmente in questo lungo anno, non sarebbero pervenute richieste di riscatto e avviate trattative. Il comunicato dei magistrati di Piazzale Clodio appare «un atto dovuto» verso l’opinione pubblica dopo un anno di totale buio informativo in cui è stata relegata la vicenda. Insomma, nell’imminenza dell’anniversario di questo nebuloso sequestro qualcosa andava detto. Le autorità del Kenya, subito dopo il rapimento, rassicurarono che la ragazza sarebbe tornata in libertà entro poche ore, una tesi che fu abbracciata anche in Italia.

Le ore invece, sono diventate giorni, mesi. Oggi è passato un anno esatto e di Silvia non si sa nulla, nulla che possa rassicurare genitori, gli amici e i tanti cittadini che si augurano il suo ritorno a casa.

In Kenya a Chakama, dove fu rapita, ma anche altrove, non si tengono più riunioni, incontri e preghiere collettive per sollecitarne la liberazione. A Chakama i testimoni hanno paura e hanno richiesto la protezione della polizia durante le audizioni in tribunale per le minacce dirette o indirette che stanno ricevendo.

Ministri e autorità politiche ribadiscono la piena collaborazione con gli investigatori italiani, una collaborazione partita in sordina e solo lo scorso agosto, ben nove mesi dopo il sequestro, e con l’ausilio di  informazioni spesso datate per un’inchiesta monca, mai partita.

C’è il rischio che il sequestro di Silvia sia silenziato dallo scorrere del tempo. Ci auguriamo che il lungo buio informativo sia servito agli investigatori a fare passi decisi verso la liberazione della volontaria.

Siamo in ogni caso preoccupati per la detenzione della ragazza in una delle zone più pericolose della Somalia: il Sud ai confini con il Kenya, dove quotidianamente i droni statunitensi conducono attacchi contro le basi degli Shabaab. Sappiamo bene che la guerra «intelligente» non esiste e che, troppo spesso, a pagare il prezzo più alto di queste incursioni, sono i civili inermi.

 

L'immagine è parte di una vignetta (tagliata in ragione degli spazi grafici a disposizione) che pubblichiamo per gentile concessione di Mauro Biani (2019 per il manifesto) *L'articolo è tratto da Articolo21.org