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Delegazione di battisti italiani in Zimbabwe

Il viaggio sarà occasione per verificare i progetti in corso nell’ambito della partnership che l’Unione battista italiana intrattiene con la Convenzione battista dello Zimbabwe. A colloquio con la pastora Anna Maffei

Durerà 15 giorni il viaggio che una delegazione dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia (Ucebi) farà in Zimbabwe per verificare i progetti in corso nell’ambito della partnership che l’Ucebi ha siglato nel 2006 con la Convenzione battista della Zimbabwe. Venerdì 1 novembre sono partiti: la pastora Anna Maffei, coordinatrice del progetto nazionale, la pastora Antonella Scuderi, membro del Comitato esecutivo Ucebi, e Domenico Bemportato, produttore della Società Produzione Audiovideo (Spav); alla fine di questa settimana si aggiungeranno: Paolo Hou, della chiesa battista di Genova, coordinatore in Italia del progetto delle adozioni a distanza «Una vita, un dono», e Paolo Meloni della chiesa battista di Cagliari, ideatore e animatore del progetto della Sartoria solidale «Tabita».

Alla pastora Anna Maffei, che per la quinta volta torna in Zimbabwe, abbiamo chiesto di raccontarci come si articolerà il viaggio.

«Scopo principale della nostra presenza in Zimbabwe è fare il punto della situazione sui vari progetti che sono in corso nel paese. In particolare, verificheremo le procedure, cercando di capire cosa si può migliorare e come si può procedere in futuro. Ad esempio, il progetto della Sartoria solidale Tabita (https://riforma.it/it/articolo/2019/09/12/tabitha-la-sartoria-solidale) si avvia alla sua conclusione, almeno dal punto di vista strutturale: la costruzione dell’edificio, sul terreno di proprietà della chiesa battista Emmanuel di Harare, è stata completata; sono arrivate le macchine da cucire, il cui funzionamento verrà insegnato da Paolo Meloni. Il 14 novembre ci sarà l’inaugurazione della sartoria che sarà gestita da donne vedove che, ci auguriamo, garantiranno con il loro lavoro un’autonomia finanziaria alle proprie famiglie. Stando sul luogo, dunque, vorremmo capire come far proseguire questo progetto, che dovrà camminare sulle proprie gambe».

Con quali aspettative ritorna in Zimbabwe?

«Tornare in quel paese consente di vedere di persona i grandi cambiamenti che stanno avvenendo: l’ultima volta che sono andata, ad esempio, governava ancora il presidente Robert Mugabe; nel 2017 il dittatore è stato deposto in modo abbastanza nonviolento, e il governo è passato al suo vice Emmerson Mnangagwa. Poi, il 6 settembre scorso, Mugabe è anche morto. Nonostante le molte speranze nate con il nuovo presidente, la situazione in Zimbabwe è finanziariamente ed economicamente ancora molto precaria: le persone vivono situazioni di grande sofferenza, ci sono continui disordini e manifestazioni. L’ultima, avvenuta qualche giorno fa, è stata appoggiata dal governo ed era organizzata per denunciare le sanzioni imposte da paesi occidentali, che da decenni strangolano il paese. Questa manifestazione si affianca ai tanti scioperi dei medici che, in queste settimane, stanno bloccando quel poco di sanità pubblica che c’è nel paese. I medici, pur essendo una categoria privilegiata, ricevono degli stipendi da fame con i quali è impossibile vivere. Immaginiamo cosa questo significhi per le tante persone che non hanno un lavoro. Uno dei progetti più importanti, che portiamo avanti da anni – grazie al contributo dell’otto per mille dell’Unione delle chiese metodiste e valdesi e, negli ultimi anni a quello dell’otto per mille dell’Ucebi – è il progetto di sostegno all’ospedale di Sanyati e ad alcune cliniche rurali».

In cosa consiste il progetto?

«Il progetto sostiene l’ospedale a Sanyati attraverso degli incentivi ad alcuni medici zimbabwani che garantiscono assistenza ai malati, dopo lunghi anni in cui l’unico medico era un dottore americano missionario che da solo portava avanti l’ospedale fungendo da medico chirurgo e da direttore sanitario. Senza questi incentivi, gli ospedali non potrebbero pagare stipendi dignitosi ai medici, che in molti casi preferiscono trasferirsi a lavorare in Sudafrica. Il progetto sostiene anche 17 infermiere e infermieri che lavorano in 6 ambulatori rurali dislocati in posti remoti: sono presidi sanitari importantissimi perché svolgono la profilassi delle malattie endemiche di questo paese (malaria, Aids…) a favore di migliaia di mersone, oltre ad aiutare le donne a partorire».

Quali altri appuntamenti sono previsti durante il viaggio?

«Ad Harare avremo modo di svolgere una verifica amministrativa del progetto «Una vita un dono», relativo alle adozioni a distanze. Visiteremo oltre alla chiesa battista ad Harare, anche quella a Tafara, quartiere remoto molto povero della capitale, con la quale abbiamo rapporti da sempre attraverso il pastore Munorwei Chirovamavi (https://riforma.it/it/articolo/2019/09/27/dopo-mugabe-incertezze-e-speranze). A Sanyati, incontreremo il Consiglio di amministrazione dell’ospedale e i leader della Convenzione battista dello Zimbabwe, che è proprietaria dell’ospedale, con i quali faremo il punto della situazione sulla partnership. Visiteremo poi alcuni ambulatori rurali, incontreremo i pastori battisti che ci aiutano con il progetto delle adozioni a distanza, e in ogni chiesa coinvolta avremo modo di dare ai ragazzi e alle ragazze i doni che sono stati preparati dalle famiglie adottive. Forse riusciremo ad incontrare anche il Consiglio delle chiese cristiane dello Zimbabwe (ZCC) (https://riforma.it/it/articolo/2019/09/13/robert-mugabe-uneredita-contro...), e ascolteremo dai leader cristiani come le chiese si stanno muovendo a livello ecumenico nella nuova situazione politica. Infine, visiteremo alcune zone nella regione ad est dello Zimbabwe, colpite dal ciclone Idai, dove verificheremo la possibilità di sostenere qualche piccolo progetto di ricostruzione con i fondi della sottoscrizione che a suo tempo avviò la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei)».

A distanza di 13 anni dal suo avvio, qual è il senso di questa partnership tra l’Unione battista italiana e la Convenzione battista dello Zimbabwe?

«Come dice il pastore battista Chamuronwa Chiromo, fiduciario della partnership con l’Ucebi, essa è importante perché è il segno tangibile e costante che c’è qualcuno che non dimentica che la fraternità va oltre le distanze e la dimenticanza delle grandi politiche. Nel nostro piccolo, possiamo essere portavoci di chi non ha la possibilità di farsi sentire, e per quanto poco possiamo fare con il nostro sostegno ai progetti nati nell’ambito di questa partnership, vogliamo continuare a farlo con costanza e serietà perché siamo chiese che non dimenticano quei nostri fratelli e sorelle in difficoltà. La nostra presenza è un segnale di non dimenticanza, di ascolto, e di considerazione di un paese lontano dall’interesse dei media nazionali e mondiali, tutti concentrati sui piccoli e meschini giochi di potere».