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Di fronte alla violenza

Più che indignarsi, occorre guardare dentro di sé: che cosa ci dice la Scrittura?

I cristiani, sulla carta, dovrebbero avere una particolare competenza sulla questione della violenza. La loro fede si riferisce al Crocifisso, un uomo che ha subito una morte violenta. Anche la storia di quanti si sono messi al seguito del Messia assassinato ha conosciuto l’ingrediente della violenza, subita e inflitta. Impossibile pensare il cristianesimo senza fare i conti con la violenza che lo attraversa. Eppure, anche noi, che ci diciamo cristiani, siamo come storditi e increduli di fronte all’attualità violenta, alla notizia di una banda di ragazzini che picchiano a morte un anziano o di una mamma che reagisce violentemente alla sospensione scolastica della figlia. 

Nel nostro presente, la violenza viene sdoganata da precise responsabilità economiche, politiche, culturali e religiose. Allo stesso tempo, siamo spettatori di una storia che è – come ha scritto Elsa Morante – «uno scandalo che dura da diecimila anni». Teatro in cui la violenza è ingrediente fisso: siamo ancora quelli “della pietra e della fionda”.

Per questo, oltre alla denuncia di scelte irresponsabili, che fomentano comportamenti violenti – denuncia a rischio di violenza! – è urgente ripensare il senso dell’agire umano. Insieme a una lucida analisi sociale, la persistenza dei comportamenti violenti domanda uno sguardo sapienziale, che metta a tema le dinamiche che attraversano da sempre la condizione umana. 

È qui che la Scrittura può mostrare la sua fecondità. Sembrerà strano questo riferimento lontano dall’attualità. Siamo così schiacciati sul presente che il solo pensare di distoglierne lo sguardo ci sembra una scelta irresponsabile. Eppure, la velocità con cui si consumano i fatti di cronaca, insieme alla reiterazione di certi comportamenti, dovrebbe almeno insinuare il sospetto che non funziona il limitarsi a rispondere all’ordine del giorno stabilito dalla cronaca. È utile riguadagnare una certa distanza (come fa il “Barone rampante” di Italo Calvino), rallentare il flusso dei pensieri, sottraendolo all’imperativo dell’attualità, proprio per rimanere fedeli al presente. Una diversa distensione delle nostre reazioni, che non è rimozione. La prima mossa è quella di guardare in faccia la scena della violenza. Il fatto che la Scrittura sia piena di episodi di violenza sta a indicare proprio questo: che è necessario osservarla a fondo, cercando di capire da dove nasca, come si sviluppi fino a giungere alla sua esplosione. La condanna dell’atto violento, per quanto necessaria, è la più facile e la meno incisiva. Non si fa fronte alla violenza postando su Facebookla nostra indignazione! In un contesto sociale dove il dibattito pubblico segue la logica del tifo, solo provando a scavare, nel frammento della cronaca, a studiare le dinamiche degli avvenimenti, a ricercare le possibili soluzioni, formulando ipotesi di lavoro, revocabili nel caso risultassero inefficaci; solo facendosi carico della violenza altrui senza dimenticare di guardare a fondo la propria; solo così lo sgomento e l’indignazione non saranno semplice sfogo. 

La Bibbia non offre soluzioni spendibili sull’immediato. Promuove, però, una postura all’insegna dell’attenzione, della cura che giunge persino all’amore per il nemico. Nel mondo biblico vengono messe in scena narrazioni antiche che tutelano chi ascolta dal rischio di un’identificazione troppo immediata. Io divento così spettatrice di un mondo lontano, dove si muovono due fratelli. Il più grande si sente svantaggiato rispetto all’altro. Poco importa se questi è il primogenito, con un nome importante rispetto ad Abele, l’effimero, colui che svapora. È per Caino, e solo per lui, che la madre ha cantato alla nascita. Abele entra in scena definito solo in funzione del fratello (Gen. 4, 2). Eppure Caino sospetta che Dio abbia occhi solo per Abele, a dispetto del fatto che si accorga della sua tristezza e lo interroghi al riguardo. Ascoltiamo la storia di un fratello divorato dall’invidia, incapace di confrontarsi con l’altro e di verbalizzare quella rabbia che lo porta al fratricidio. Una violenza annunciata, eppure sarebbe bastato poco per disinnescarla. Chi ascolta questa antica narrazione fa un cammino emotivo. All’inizio, guarda il mondo con gli occhi di Caino, ma poi allarga lo sguardo e si accorge che le cose sono più complesse rispetto al pregiudizio invidioso che ha generato la violenza. 

Oggi, più che mai, la scelta di prendere sul serio il racconto biblico, di fermarsi a lungo sui banchi di quella scuola, può essere decisiva. Sarà proprio quella sapienza a sollecitare, poi, la puntualità dell’analisi, il coraggio dell’azione, il modo più generativo di affrontare il conflitto. In una parola: la violenza domanda di essere guardata, capita. Ce lo ha ricordato con forza Primo Levi: «Considerate se questo è un uomo... una donna... Meditate...». Di fronte all’abisso di violenza della Shoah, questo testimone ha speso la sua vita non “allo scopo di formulare nuovi capi di accusa” ma per “fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano”. 

L’esplodere della violenza, ai nostri orecchi, deve suonare come un appello a voler capire più a fondo e a mettere in campo scelte responsabili. 

Foto da MAxPixel

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