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Una tassa per chi “aiuta a casa propria”

L’imposta dell’1,5% sui money transfer non ha grandi effetti sulle casse pubbliche, ma danneggia chi invia rimesse nel proprio Paese d’origine e chi riceve questo aiuto

Licenziato la scorsa settimana dal Senato, il cosiddetto “decreto fiscale” comincerà il suo ultimo passaggio nella giornata di domani, quando verrà discusso in Commissione Finanze alla Camera prima di arrivare in aula per l’approvazione definitiva. Tra le numerose misure inserite nel testo rientrano interventi in tema di pace fiscale e la conferma dell’avvio dell’obbligo di fattura elettronica dal primo gennaio 2019. Inoltre si prevedono misure come il rinnovo del “bonus bebè”, il taglio delle imposte sulle sigarette elettroniche e una tassa sulle operazioni di trasferimento di denaro verso territori extra-europei dell’1,5%. Un provvedimento neutro solo all’apparenza. A utilizzare questi servizi, infatti, sono soprattutto i lavoratori stranieri, che inviano denaro alle proprie famiglie nei Paesi d’origine. «L’obiettivo – racconta Enrico Di Pasquale, ricercatore della Fondazione Leone Moressa, che si occupa della dimensione economica e lavorativa delle migrazioni – è fare cassa, però il gettito non è così rilevante, ma ha un impatto negativo molto forte su chi utilizza questo servizio, quindi soprattutto sui lavoratori immigrati regolari che mandano soldi a casa, non certo su chi è nei centri di accoglienza o è appena sbarcato».

Osservando i dati, si può notare che l’80% dei cinque miliardi di rimesse annue va fuori dall’Unione europea e che il gettito della nuova tassa sarebbe di appena 60 milioni, appena sufficienti per compensare la detassazione delle sigarette elettroniche. Per contro, l’impatto sui piccoli risparmiatori stranieri, che mandano soldi nel proprio Paese d’origine, è importante, soprattutto agli occhi di chi riceve quelle rimesse. La Fondazione Leone Moressa ha provato a calcolare l’impatto della nuova tassa sui risparmiatori. «Ci sarebbe un costo aggiuntivo – racconta Di Pasquale – per esempio per la comunità del Bangladesh di 8 milioni di euro. Considerando che i cittadini del Bangladesh in Italia sono circa 130.000, ogni cittadino di quel Paese, considerando anche bambini e anziani, pagherebbe 60 euro in più, quindi in qualche modo diventa una tassa sugli immigrati».

La prossima settimana a Marrakech i rappresentanti dei governi di gran parte del mondo si riuniranno per apporre la propria firma sul Global Compact for Migration, un testo che propone un quadro globale sulla gestione del fenomeno migratorio. In questo documento si chiede ai Paesi di rendere più facili di rendere più facili ed economiche le rimesse verso i Paesi d’origine, che servono parzialmente a rallentare il flusso migratorio, perché portano una ricchezza anche nei Paesi di origine. L’obiettivo globale è ridurre i costi delle rimesse, attualmente intorno al 7%, portarli al 5% e poi addirittura al 3% entro il 2030. L’Italia negli ultimi anni ha fatto uno sforzo nella riduzione di questi costi, che oggi si collocano al 6,2%, ma con il decreto fiscale si inverte la tendenza. «Questa tassa – chiarisce Di Pasquale – ha un duplice effetto: sfavorire gli aiuti alle famiglie d’origine e incentivare i canali informali, se non addirittura illegali. Se mandare i soldi con i money transfer mi costa di più, preferisco affidare la valigia con i soldi a un parente che prende l’aereo se non addirittura a qualche canale illegale. L’impegno internazionale di ridurre i costi andava in questa direzione, limitare i canali informali e illegali e quindi favorire la tracciabilità e i controlli».

Il nostro Paese, che ha deciso di sospendere l’adesione al Global Compact, sembra andare in direzione contraria: se da un lato si dice “aiutiamoli a casa loro”, dall’altro si rende più complicato metterlo in pratica, visto che i primi ad “aiutare a casa loro” sono proprio “loro”, i lavoratori regolari che mandano le rimesse alle proprie famiglie, proprio come facevano gli emigranti italiani dei secoli scorsi.

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