La filosofia della religione di Pietro Prini
16 ottobre 2018
Il filosofo scomparso dieci anni fa fu esponente dell’esistenzialismo cristiano
Pietro Prini (1915-2008) è stato, insieme a Luigi Pareyson, il più importante esponente italiano dell’esistenzialismo cristiano. Attualmente il suo pensiero è oggetto di un rinnovato interesse, dopo un periodo di dimenticanza, seguito alla pubblicazione dello Scisma sommerso (1998-1999), un’opera avversata dai tradizionalisti cattolici.
Prini riteneva che la filosofia della religione potesse essere utile come metodologia critica dell’esperienza religiosa, per una serie di ragioni. Anzitutto, il nucleo di ogni religione è un’esperienza, una via, un cammino (non una dottrina) che ha a che fare con il Sacro. Secondo Prini, il Sacro è una dimensione costitutiva e ineliminabile dell’essere umano in quanto tale. Tanto è vero che anche nella modernità e nella post-modernità, caratterizzate in linea di principio dalla dissacrazione, il Sacro ricompare in forma camuffata, inconsapevole e (auto)distruttiva: per esempio, nelle grandi idolatrie totalitarie del Novecento, o nel post-moderno, in cui solo piccoli, mutevoli e vuoti idoli si frappongono alla paura, alla disperazione o alla scomposta e fragile autoesaltazione narcisista.
Occorre invece recuperare il senso profondo del Sacro. Ma, a questo fine, è necessario procedere a una sua «autenticazione», sfuggendo a una trappola in cui è facile incorrere: la confusione fra tradizione e tradizionalismo (per noi fra Cristianesimo e cristianità). La tradizione rappresenta la sedimentazione dei tentativi di organizzare concettualmente l’esperienza del Sacro (per i cristiani, di Dio attraverso la mediazione di Gesù Cristo) secondo le categorie prevalenti in ogni epoca storica. Il tradizionalismo si abbarbica a queste forme: ma la fedeltà alla lettera comporta il tradimento dello Spirito. Un enorme patrimonio di conoscenze si è sviluppato nell’Occidente, a partire dalla rivoluzione scientifica del XVII secolo. L’onestà intellettuale, che è un altro modo per dire l’onestà verso Dio, impone di tenerle costantemente presenti. Da questa consapevolezza nasce la formula priniana di una fede critica: «La scienza non è certamente la chiave ermeneutica della Rivelazione, ma ne può liberare il senso da interpretazioni certamente false» (si ricordi la demitizzazione di Bultmann o il «Dio tappabuchi» di Bonhoeffer).
Però la scienza non esaurisce tutta la conoscenza. C’è di più: «il linguaggio simbolico che è proprio del Sacro non può essere confuso con il linguaggio fattuale che è proprio della narrazione profana». «Il simbolo dà da pensare» (Ricoeur) proprio perché si rivolge non al Soggetto impersonale, che è il protagonista della ricerca scientifica e ne costituisce insieme la gloria e il limite, ma a ciascuno di noi, nella nostra concretezza empirica, e insieme nel nostro desiderio profondo di senso. E qui soccorre la logica della testimonianza, dell’apertura all’Altro e al prossimo, della gratuità, del dono. Così, e non attraverso presunte dimostrazioni metafisiche dell’esistenza di Dio, è possibile secondo Pini attestare, nel concreto dell’esperienza del singolo e della comunità che lo sostiene, la Verità che rende liberi.