Riforma penitenziaria: a che punto siamo?
20 luglio 2018
Le commissioni Giustizia di Camera e Senato hanno bocciato la riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dall’ex ministro Orlando, ma il parere non è definitivo
In un recente articolo pubblicato sul suo blog, il comico e garante del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo, è tornato su un tema non del tutto nuovo per lui e per il movimento da lui fondato: il carcere. Sin dal titolo del suo intervento, Un mondo senza carceri, è chiara la sua posizione.
Il sistema dell’esecuzione penale nel nostro Paese poggia ancora su una legge del 1975 e questo fa dire a Grillo che è «antico come il mondo e non funzionante». «Il vero problema – aggiunge poi – sono i recidivi», ovvero i detenuti che tornano in carcere dopo esserci già stati. Sulla base della considerazione per cui quasi due persone su tre (il 63%) tra quelle che si trovano in un istituto penitenziario lo avevano già frequentato in precedenza, per Grillo la reclusione «non funziona».
Tuttavia, se la sua posizione è piuttosto netta, non è scontato comprendere quale sia la visione del sistema penale in seno al Movimento 5 Stelle. Proprio nelle ore precedenti alla pubblicazione di questo articolo, infatti, le Commissioni Giustizia del Senato e della Camera, una dopo l’altra, avevano bocciato la riforma del sistema penitenziario, sulla quale il ministro Alfonso Bonafede, appena insediato, aveva espresso la propria contrarietà.
Il riordino dell’esecuzione penale era stato avviato dal suo predecessore, Andrea Orlando, che l’aveva inserito nella riforma della giustizia, approvata dal Parlamento il 23 giugno 2017. Il Consiglio dei Ministri scriveva che «il provvedimento ha principalmente l’obiettivo di rendere più attuale l’ordinamento penitenziario previsto dalla riforma del 1975, per adeguarlo ai successivi orientamenti della giurisprudenza di Corte Costituzionale, Corte di Cassazione e Corti europee», in particolare «riducendo il ricorso al carcere in favore di situazioni che, senza indebolire la sicurezza della collettività, riportino al centro del sistema la finalità rieducativa della pena indicata dall’art. 27 della Costituzione». Il riferimento è al terzo comma, «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Stando ai tassi di recidiva citati prima, è chiaro che il sistema non svolge questa funzione.
Nel testo della riforma Orlando era espressa anche l’intenzione di muoversi nel tentativo di «diminuire il sovraffollamento, sia assegnando formalmente la priorità del sistema penitenziario italiano alle misure alternative al carcere, sia potenziando il trattamento del detenuto e il suo reinserimento sociale in modo da arginare il fenomeno della recidiva». Tuttavia, la riforma della giustizia, dopo l’insediamento del nuovo governo Lega-5 Stelle, è stata delegata ed è stata bocciata da Camera e Senato, anche se non in termini definitivi visto che dovrà essere discusso entro la deadline del prossimo 3 agosto, altrimenti il testo decadrà.
«Il punto – secondo Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone, che ha contribuito negli scorsi anni alla stesura della riforma – è l’idea di pena. I nostri padri costituenti avevano chiara la speranza che l’Italia riuscisse a utilizzare non solo la pena carceraria come sanzione, ma anche strumenti di tipo differente, che sono oggettivamente più utili all’intera società». La bozza di riforma cercava infatti di allargare il perimetro delle misure alternative alla detenzione, le pene scontate almeno in parte fuori dalle mura del carcere, naturalmente sotto il controllo della magistratura e dei servizi sociali. Si tratta di un modello che ricalca quello delle Community Sanctions già presenti in molti ordinamenti in Europa. «Costano terribilmente di meno del carcere – aggiunge Marietti – e poi scontandosi nella comunità, quindi non recidendo i legami del cittadino con il resto della società, fanno sì che non ci sia bisogno di reintegrare, ma che ci sia una continuità dell’integrazione sociale».
Tra le critiche mosse alla riforma da parte di una componente del Movimento 5 Stelle e soprattutto da parte della Lega, spicca la posizione secondo cui il riordino dell’esecuzione penale in favore di misure alternative metta in dubbio il principio della “certezza della pena”, che per il ministro degli Interni Salvini corrisponde a “chi sbaglia paga”, minando di conseguenza la sicurezza sociale. «In realtà – ribatte Susanna Marietti – visto che con le sanzioni di comunità la recidiva viene abbattuta, la sicurezza dei cittadini è assolutamente garantita». Di parere opposto proprio il Movimento 5 Stelle: subito dopo la bocciatura, il senatore Giarrusso si è rallegrato della decisione delle Commissioni, definendo la riforma «uno svuotacarceri mascherato». Ogni pena che si svolge fuori dal carcere, insomma, viene considerato dai partiti al governo come un’assenza di pena. «È fattualmente falso – commenta Marietti – perché l’affidato si sveglia la mattina e dal momento in cui si alza dal letto al momento in cui vi ritorna deve seguire un rigidissimo programma di prescrizioni, stilate dal magistrato con la supervisione dei servizi sociali. È assolutamente soggetto alla pena, semplicemente invece che scontare questa pena sdraiato in una branda in una cella lo farà lavorando, studiando, facendo lavori di pubblica utilità e tutto quello che deve fare».
Inoltre, le commissioni hanno espresso contrarietà anche a una delle misure adottate negli scorsi anni in seguito alla sentenza Torreggiani, ovvero la sorveglianza dinamica per almeno 8 ore al giorno, un modello di controllo da parte degli agenti di Polizia Penitenziaria che si basa sulla conoscenza personale degli individui detenuti e delle dinamiche che si creano in una sezione, il modello delle cosiddette “celle aperte”. Si tratta di uno degli aspetti maggiormente criticati dal Movimento 5 Stelle, che su questo tema ha accolto pienamente la posizione dei sindacati di polizia più conservatori.
Quando lo scorso aprile la Commissione speciali della Camera aveva deciso di non calendarizzare l’esame finale sul primo dei quattro decreti che compongono la riforma, l’allora ministro Orlando aveva inviato una lettera affermando che «la mancata attuazione della riforma rischierebbe di pregiudicare gli importanti passi compiuti, che hanno determinato la chiusura del monitoraggio al quale il nostro Paese era stato sottoposto a seguito della condanna della Corte Europea dei Diritti dell’uomo del gennaio 2013». Dello stesso parere Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio sul carcere dell’Unione delle Camere penali italiane, secondo cui «la riforma dell’ordinamento penitenziario è necessaria, quasi un obbligo per l’Italia».
L’urgenza della riforma diventa evidente se si guarda a quel che succede nelle carceri: durante i primi tre mesi del 2018 si sono registrati undici suicidi, mentre il numero dei detenuti continua a crescere. Oggi sono infatti oltre 58.000 le persone recluse, ben oltre i 50.000 posti disponibili. A questo va aggiunto che più di un detenuto su tre è ancora in attesa di giudizio. «Questo processo va avanti dall’inizio del 2016, sta ritornando il sovraffollamento nei numeri che erano scesi dopo la sentenza Torreggiani. In carcere si ricomincia a vivere in maniera sovraffollata e in molte carceri è stata messa la terza branda nel letto a castello, quindi si ricomincia a vivere con detenuti che dormendo sfiorano col naso il soffitto. La situazione non è ancora allarmante come quella a cui siamo stati abituati alcuni anni fa, però si percepisce che tutto in carcere si sta di nuovo chiudendo. Stiamo tornando a una detenzione vecchio stile».
Francesco Sciotto, pastore delle chiese di Scicli e Pachino, spiega che «quello che cambierà se la riforma dovesse passare, sarà la qualità della vita dei detenuti. Ci saranno più prospettive di miglioramento della propria condizione: quando faccio un colloquio con una persona in carcere sapere che la sua situazione è più disposta a un mutamento in meglio è già una cosa che riempie la vita delle persone. Avere una riforma che faciliti il mutare della condizione di detenzione certamente cambia, si riverbera sui rapporti pastorali che hai con le persone. La riforma può cambiare le cose anche nel rapporto con la propria interiorità, con le sue prospettive di miglioramento».