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Nulla cambia per i dannati della terra

Nel rapporto 2018, Medici per i diritti umani denuncia le disumane condizioni di vita dei migranti che lavorano nella piana calabrese. L’intervista con Alberto Barbieri, coordinatore generale di Medu

Si intitola I dannati della terra ed è il rapporto 2018 sulle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti stranieri nella Piana di Gioia Tauro curato da Medici per i diritti umani in collaborazione con il circolo Arci Iqbal Masih di Venosa, la Flai-Cgil di Gioia Tauro, il Comune di Rosarno, l’associazione Terra!Onlus, Zalab e Amisnet/Echis.

Sono sempre di più le persone migranti giunte recentemente in Italia, soprattutto titolari di protezione internazionale o umanitaria, che non hanno accesso a politiche di accoglienza e integrazione adeguate e che finiscono per lavorare nelle campagne del centro e sud Italia in condizioni di sfruttamento e spesso nelle mani della criminalità organizzata, vivendo una condizione di emarginazione crescente.

Nell’introduzione del rapporto si possono leggere le parole dello psichiatra francese Frantz Fanon, autore nel 1961 di un libro che porta lo stesso titolo, I dannati della terra, un’opera centrale per riflettere sulla condizione di chi paga il prezzo della globalizzazione. «Per il popolo colonizzato il valore primordiale, perché il più concreto, è innanzitutto la terra: la terra che deve assicurare il pane e, sopra ogni cosa, la dignità».

Per il quinto anno consecutivo la clinica mobile di Medu, Medici per i diritti umani, ha lavorato tra il dicembre del 2017 e l’aprile del 2018 nella Piana di Gioia Tauro per fornire assistenza socio-sanitaria agli oltre 3.500 lavoratori migranti presenti anche quest’anno nella zona durante la stagione della raccolta degli agrumi e distribuiti nei numerosi insediamenti informali dell’area.

Si tratta di luoghi che sulle mappe non esistono, ma che visti dall’interno raccontano molto. Raccontano per esempio di arance, clementine, kiwi, ma anche pomodori e altri prodotti della terra, raccolti in condizioni di sfruttamento, spesso senza tutele, oppure di persone vittime di una condizione insostenibile. Inoltre quest’anno va ricordato l’incendio della baraccopoli di San Ferdinando, appena fuori Rosarno, nel quale è morta Becky Moses, una donna nigeriana di 26 anni. «Il rapporto di quest’anno – racconta Alberto Barbieri, coordinatore generale di Medu – purtroppo non registra cambiamenti significativi rispetto alla situazione devastante che avevamo incontrato negli anni precedenti. Abbiamo definito quello della piana di Gioia Tauro, di Rosarno, uno scandalo italiano, perché a otto anni dalla cosiddetta “rivolta di Rosarno” che balzò sui media nazionali e anche internazionali poco è cambiato e forse alcune cose sono addirittura peggiorate». In questi luoghi, Medici per i diritti umani ha fornito assistenza sanitaria e medica, insieme all’orientamento sociosanitario, a oltre duemila persone.

Il fenomeno dello sfruttamento dei lavoratori migranti non è affatto in recessione: questo ci dice che il fenomeno, che esiste da molti anni, è qui per restare?

«C’è stata una legge contro il caporalato e ci sono stati anche sul territorio, in Calabria, dei protocolli firmati dalle istituzioni, dal ministero dell’Interno, dalla prefettura di Reggio Calabria, dalla regione, dai comuni, per cercare di migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori migranti. Questi protocolli però sono rimasti sulla carta: la realtà dei fatti va oltre il detto gattopardesco secondo cui “tutto cambia perché niente cambi”, perché sembra che nella piana di Gioia Tauro e in Calabria niente cambi e niente cambierà».

Riguarda solo il sud Italia?

«Torniamo sulla definizione di “scandalo italiano”: Rosarno e la Piana di Gioia Tauro rappresentano forse l’esempio più paradigmatico, più grave, di qualche cosa che però è diffuso a livello nazionale. Pensiamo alla Puglia, alla Capitanata, alla provincia di Foggia per la raccolta dei pomodori, come anche in Basilicata a Palazzo san Gervasio, alla Sicilia per la raccolta delle olive a novembre e in altre situazioni in varie province siciliane e non solo, all’agro pontino qua nel Lazio, con lo sfruttamento dei lavoratori sikh, e non solo il centro e sud Italia, perché ci sono situazioni gravi anche nel nord: a Saluzzo, in Piemonte forse il fenomeno è meno eclatante, ma ci sono situazioni di sfruttamento e condizioni di vita dei lavoratori migranti stagionali gravi, particolarmente in estate, quando c’è la raccolta delle pesche».

La popolazione che vive e lavora nella Piana di Gioia Tauro probabilmente non ha nemmeno coscienza di quelli che sarebbero i propri diritti, perché molto spesso si tratta di persone che non sono nemmeno transitate all’interno di veri progetti di integrazione e sono state condannate alla marginalità. Avete portato avanti riflessioni su questo aspetto?

«Certamente, infatti il progetto ha l’obiettivo non solo di dare assistenza medica, ma anche quello di fare orientamento sociosanitario, quindi fare anche formazione sui diritti. Nel 90% dei casi i lavoratori migranti che abbiamo incontrato e assistito avevano regolare permesso di soggiorno, e sempre di più sono richiedenti asilo, titolari di protezione internazionale o rifugiati arrivati da poco tempo in Italia. L’età media è di 29 anni, quindi anche le patologie, le malattie che riscontriamo, non sono assolutamente malattie di importazione, malattie infettive, cose di questo tipo, ma sono problemi di salute legati alle condizioni di vita o di lavoro pessime qui in Italia».

Eppure si tratta di persone che in larga parte avrebbero diritto all’assistenza sanitaria. Invece che cosa si rileva?

«Solo la metà delle persone ha la tessera sanitaria, mentre ne avrebbero diritto tutte le persone con permesso di soggiorno. Molti di loro non sono adeguatamente informati su come funziona il servizio sanitario nazionale, quindi crediamo che la Piana di Gioia Tauro e i problemi che ci sono siano un po’ una sintesi: questa zona è il luogo di incontro tra quello che è l’economia globalizzata e lo sfruttamento in agricoltura, perché ci sarebbe da fare un ampio discorso su dove vanno a finire queste arance che vengono raccolte, la grande distribuzione, lo sfruttamento a catena verso il basso. È un sistema è globalizzato, sempre più competitivo, sempre più penalizzante verso la catena bassa della raccolta e le contraddizioni del nostro sistema di accoglienza e integrazione. A questo aggiungiamo dei nodi irrisolti secolari, come quello della questione meridionale. Insomma, il territorio della piana di Gioia Tauro, in Calabria, ha problemi enormi non solo per i migranti, ma anche per i cittadini calabresi della Piana».

Parliamo di un sistema di totale illegalità, fatto di lavoro nero e nient’altro?

«Il 70% lavora in nero, mentre il 30% ha un contratto solo sulla carta, perché chi ce l’ha non è informato sui propri diritti e spesso non riceve i contributi, quindi si tratta di quello che si chiama in gergo giornalistico “lavoro grigio”. Le condizioni di lavoro sono estremamente dure, parliamo di 8-10 ore di lavoro al giorno per una retribuzione che a fine giornata a malapena raggiunge i 25 euro. Poi non bisogna ovviamente dimenticarsi che la piana di Gioia Tauro è una delle aree a più alta densità di presenza di ‘Ndrangheta».

In un quadro come questo esistono esempi positivi, che ci permettono di individuare pratiche capaci di cambiare qualcosa?

«Certo, se c’è la volontà politica le cose si possono fare. Cito l’esempio del borgo di Drosi, che è un piccolo paesino vicino a Rosarno dove alcuni volontari si sono messi insieme e ormai da cinque anni hanno messo su una rete di housing sociale in cui i tanti alloggi, le case lasciate sfitte o non abitate da gente della Piana che è emigrata vengono affittate a canoni bassi e accessibili ai migranti. Oggi 150 persone migranti ogni anno per la stagione degli agrumi trovano alloggio in condizioni dignitose nel villaggio di Drosi. Se si vuole bastano poche risorse per ottenere dei risultati importanti».

Foto: La vecchia tendopoli di San Ferdinando dopo l'incendio, autore Rocco Rorandelli

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